Sin dai primi di marzo la Francia è entrata in una nuova situazione. Quella precedente era ingessata dalla polarizzazione politica esercitata dal Front national e dal parallelo instaurarsi di un clima d’emergenza in seguito agli attentati del gennaio e novembre 2015.
Né la polarizzazione né il clima d’emergenza sono scomparsi: bisognerebbe essere molto ingenui per credere che tutto ciò sia stato cancellato dall’attuale movimento. Ma il fatto politico centrale delle ultime settimane è che, nonostante appunto questi due elementi che incidono pesantemente nella vita politica e sociale, s’è sviluppata una multiforme mobilitazione che regge già il paragone con le più grandi mobilitazioni dei lavoratori e dei giovani degli ultimi 15 anni: quelle del 2003, del 2006 e del 2010.
Già da prima di marzo era possibile cogliere i primi sintomi d’uno scontro sociale. Innanzi tutto a causa della fortissima corrente di simpatia suscitata dalla mobilitazione dei salariati d’Air France, con l’episodio “della camicia”, nell’ottobre 2015 [1]. Nello stesso periodo, soprattutto in imprese piccole e medie, scioperi e interruzioni del lavoro avevano ripreso a manifestarsi con vigore, in particolare in occasione delle trattative annuali obbligatorie. Egualmente importanti erano state le mobilitazioni sul clima, in occasione della COP21, anche se poi gli attentati di novembre e l’instaurazione dello stato d’emergenza avevano permesso al governo di smorzare lo slancio delle manifestazioni di piazza. Infine, le grandi manifestazioni contro l’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes [2] e la costituzione di reti d’appoggio per i migranti avevano coinvolto decine di migliaia di giovani, di militanti attivi e coordinati dalle associazioni e dalle reti sociali.
La prima lezione che si poteva ricavare da queste mobilitazioni era che la gestione degli interessi capitalistici da parte della socialdemocrazia, la debolezza di qualsiasi forma d’opposizione politica a sinistra del Parti socialiste e la letargia delle direzioni sindacali non erano affatto sinonimi di una analoga letargia dell’insieme del corpo sociale, a partire da gran parte dei salariati e dei giovani, duramente colpiti dalla disoccupazione e dell’austerità. Al contrario, la situazione rifletteva già la distanza nei confronti dei partiti istituzionali, che, completamente discreditati, condividevano il bilancio delle politiche governative dell’ultimo ventennio. È questo discredito che, in assenza di lotte sociali, ha favorito negli ultimi anni la costante crescita dell’astensionismo e del voto per il Front nationalnei settori popolari.
Sul terreno sociale, fin dall’inizio del quinquennio presidenziale di Hollande molte richieste del Medef [la Confindustria francese] relative alla legislazione del lavoro sono state accolte, con le leggi Macron e Rebsamen, proseguendo così l’opera di erosione dei diritti iniziata, in particolare, con la legge Fillon del 2008. L’adozione da parte dei governi socialisti dell’ortodossia padronale sul «costo del lavoro» è stato il preludio all’adozione dell’Accordo nazionale interprofessionale (ANI), che introduceva gli accordi di competitività: altrettanti passi avanti per portare la Francia al livello degli altri Paesi europei in fatto di rimessa in discussione dei diritti sociali.
La legge El Khomri, un detonatore sociale
È così che la legge El Khomri, il cui cuore è costituito dal ribaltamento della gerarchia delle norme [3] s’è trasformata in un detonatore sociale. Evidentementea causa del suo contenuto, che cancella il “principio di favore”, e che, puressendo portatore di molti altri attacchi, in questo contesto è diventato un vero catalizzatore.
Non è questo il luogo di indicare prospettive immediate e di fare un bilancio (è ancora troppo presto) di questo movimento, che può certo sfociare in uno scontro di più ampia portata e in una crisi politica, ma può anche sgonfiarsi di fronte ai numerosi ostacoli che si trova di fronte.
Ciò nonostante, diverse sue caratteristiche possono essere rimarcate sin da ora:
• Innanzi tutto, il suo punto di partenza. Vi era stato un lungo lavoro di preparazione, di analisi del Rapporto Combrexelle e del Progetto Badinter [4], realizzato da settori militanti, in particolare della Fondation Copernic, di alcuni sindacati della Confédération générale du travail (CGT) e da Solidaires, ma il fattore scatenante, e anche il successivo appello del 9 marzo, si devono innegabilmente alle reti sociali, con la petizione nota come «di Caroline de Haas » [5].
• Ciò che è rivelatore è mettere a confronto il tono della petizione, che chiedeva nettamente il ritiro della legge, considerata come un attacco frontale, con la dichiarazione del 23 febbraio delle direzioni sindacali. Queste non chiedevano il ritiro della legge, ma solo di alcune sue misure, lamentandosi soprattutto dell’assenza di dialogo, per concludere poi sulla necessità che il governo si incontrasse con loro… Senza alcun appello alla benché minima mobilitazione.
• Allo stesso modo, l’invito alla prima mobilitazione, che costituì anche l’occasione di numerose dichiarazioni a favore dello sciopero, è partito dalle reti sociali, subito sottoscritto dai primi firmatari della petizione.
• È necessario insistere su questo punto, poiché ciò che a prima vista sembra aneddotico è in realtà rivelatore d’un orientamento generale di passività delle direzioni sindacali confederali, con l’eccezione di Solidaires. Questo orientamento si alimenta, evidentemente, di un pessimismo diffusosi in numerosi apparati sindacali dopo il fallimento dell’ultima grande mobilitazione nel 2010 (fallimento a sua volta dovuto alla politica delle direzioni confederali), ma è in realtà il frutto dell’orientamento generale assunto nei confronti delle politiche di austerità oltre che, a partire dal 2012, del timore di danneggiare troppo un governo di sinistra.
E così, le direzioni sindacali non hanno neanche tentato, prima dell’annuncio della nuova legge, di prepararsi a una mobilitazione, mediante un lavoro di spiegazione, di informazione, di sensibilizzazione dei salariati… Per non dire poi di un lavoro più politico, che facesse un bilancio del 2010 e prospettasse la necessità d’un movimento unitario, d’uno sciopero generale per far retrocedere il governo. A due mesi di distanza, l’assenza di questo lavoro preparatorio si sente ancora. E sarebbe stato tanto più necessario in quanto la classe operaia e i settori popolari da oltre trent’anni avevano subito numerose sconfitte sul terreno sociale a seguito dei molteplici attacchi liberali.
Alle radici della mobilitazione
Ma si deve tener conto della presenza di altri elementi, contraddittori, che stanno alla base della mobilitazione:
• La situazione francese è tuttora sfasata rispetto a quella di altri Paesi europei nei quali il rullo compressore capitalista ha fatto molti più danni. Qui sussiste ancora una diffusa consapevolezza di tutto quanto va ancora preservato, non perso, nei campi dei servizi pubblici, della sicurezza sociale, dei sistemi d’assunzione, della legislazione del lavoro. Da questo punto di vista, la rivoluzione culturale neoliberale del Parti socialiste incontra ancora numerosi ostacoli, anche in ciò che ancora gli resta di base elettorale e di militanza. Le reazioni dei suoi dissidenti e dei primi firmatari della petizione rappresentano anche un riflesso difensivo di ambienti vicini al PS o del Front de gauche.
• I militanti dei movimenti sociali nel loro complesso ricordano sì le sconfitte subite, ma anche le forti mobilitazioni dei salariati e dei giovani. Il Paese ha regolarmente assistito, fino al 2010, a scontri frontali: quelli dei salariati contro le riforme delle pensioni – 1995, 2003 e 2010 – e il potente movimento innescato dagli studenti nel 2006 che ha portato alla vittoria contro il CPE (Contratto di primo impiego). Occorre inoltre sottolineare come la vittoria del 2006 contro il governo Villepin fosse stata ottenuta dopo che questi aveva imposto con la forza la legge grazie all’articolo 49-3 [della Costituzione]. Una lezione da tenere presente, poiché il governo ha adottato la stessa procedura, che richiederà per concludersi tutto il mese di giugno (con un passaggio obbligatorio per il Senato, prima di tornare all’Assemblea nazionale) [6].
• Nei quartieri popolari sono numerosi i giovani e i meno giovani che hanno un vivo ricordo della rivolta urbana durata quattro settimane (ottobre-novembre 2005) che aveva fatto seguito alla morte di Zyed e di Bouna a Clichy-sous-Bois. In quella occasione, i giovani avevano toccato con mano l’estraneità e l’ostilità della maggioranza dei partiti e dei movimenti, fatto salva l’eccezione di una parte dell’estrema sinistra (fra cui la Ligue communiste révolutionnaire). Questa ostilità verso i quartieri popolari, all’epoca posti sotto accusa da Sarkozy, e in particolare nei confronti dei giovani arabi e neri, bersaglio di tutte le campagne sulla “sicurezza” ma anche vittime privilegiate della disoccupazione e della precarietà, ha continuato a manifestarsi in questi ultimi anni ed è stata accentuata dall’ondata di islamofobia scatenatasi dal gennaio 2016. La frattura che si è così creata è tuttora visibile nell’attuale movimento, allorché, paradossalmente, questi giovani erano stati ancora molto presenti in quello sviluppatosi qualche mese più tardi, nel 2006, contro il CPE.
- Crisi delle strutture di resistenza sociale, sindacale e politica. Fino alla fine degli anni Novanta (cioè alla fine del secolo scorso) il movimento operaio, comprese le sue espressioni politiche, costituiva una sorta di tessuto, dalle molteplici trame, che presentava sì degli strappi ma era ancora caratterizzato da richiami comuni alla sua storia e alle sue «grandi» lotte. Con gli anni 2000 e il ritorno della socialdemocrazia al potere gli strappi d’allora si sono trasformati in profonde lacerazioni. Ne deriva che le nuove generazioni militanti – spesso molto radicalizzate, presenti nelle lotte antirazziste, antifasciste, ecologiche, nonché in molte sezioni sindacali, e in particolare nel settore del precariato – non concepiscano le loro lotte come inserite in un «movimento operaio» defunto. Contraddittoriamente, mentre le vecchie generazioni di militanti, assorbite dalla politica istituzionale, hanno finito col gettare alle ortiche le proprie speranze rivoluzionarie, le nuove generazioni – che non hanno la stessa tradizione alle spalle – sono spesso dotate d’una solida consapevolezza dei misfatti della barbarie capitalista e si mostrano ricettive ai discorsi sulla necessità d’una trasformazione rivoluzionaria. Questa consapevolezza s’accompagna spesso a una forte esigenza di democrazia reale, al rifiuto della delega: eredità dei fallimenti dello stalinismo e della gestione socialdemocratica. Persistono tuttavia in questi giovani (non esiste la gioventù, esistono i giovani…) profonde fratture. Fratture sociali, ovviamente, aggravate dalla frattura coi giovani dei quartieri popolari, suddivisi razzisticamente dalla società in neri, arabi, musulmani. Non tutti i giovani erano Charlie… Il movimento attuale può ricomporre molte di queste divisioni: ma ciò non si è ancora verificato.
• La ristrutturazione del tessuto economico, nell’industria e nei servizi, è pesantemente responsabile delle difficoltà organizzative e del disorientamento politico. Ai fattori di destrutturazione politica del movimento operaio s’aggiungono le destrutturazioni obiettive (subappalti, dequalificazioni…) i cui effetti non sono stati realmente contrastati dal movimento sindacale. Le difficoltà che si incontrano nell’estendere la mobilitazione in molti settori derivano, evidentemente, da questo stato di cose, che indebolisce ancor più la consapevolezza di appartenere alla stessa classe.
La crisi politica
Le ultime settimane hanno inoltre evidenziato quale livello abbia raggiunto la crisi politica. In primo luogo quella dei partiti istituzionali. Il diffuso rigetto del governo e del Parti socialiste si riflette nella paralisi del primo, ormai incapace di fare votare a favore della propria politica i suoi stessi deputati (e ciò a prescindere dell’esito che avrà il dibattito sulla legge El Khomri). Questo discredito si riflette anche nei sondaggi, che incontestabilmente rivelano come il governo e la coppia Hollande-Valls siano i più impopolari dall’avvento della V Repubblica. La crisi interna del PS, ben evidenziata dalla surreale discussione sulle “primarie della sinistra” – che a sua volta accentua la crisi del Parti communiste français – e dal ruolo assunto da Emmanuel Macron, non è che il corollario della crisi di cui sopra. Lo stesso progetto di Valls di trasformare il PS nella copia transalpina del partito di Matteo Renzi sta andando in frantumi, sorpassato sulla destra. Una crisi, in conclusione, simmetrica a quella dei Républicains… [7]
Dal 2008 a oggi in Europa tutti i partiti dominanti sono colpiti e logorati dall’impatto delle trasformazioni prodotte dalla globalizzazione e dalle drastiche politiche liberali adottate. Dopo la Grecia, l’Italia e lo Stato spagnolo, è ora la volta della Francia di entrare, a suo modo, nel girone di un discredito che sta raggiungendo livelli allarmanti. Ciò impone necessariamente alla borghesia la ristrutturazione del suo apparato politico, andando al di là di limiti ormai chiaramente obsoleti.
In Francia a questa crisi partitica può molto presto sommarsi una più profonda crisi delle istituzioni, di tutto il sistema politico stesso. Le istituzioni della V Repubblica erano state concepite per un sistema dominato da un partito – lo stesso al Senato, all’Assemblea e all’Eliseo – al servizio di un regime forte e di un presidente della Repubblica forte. Dopo la crisi del gollismo e l’avvento del bipartitismo si è dovuto procedere alla riforma del 2001, che instaurava un regime presidenziale che saldava fra loro maggioranza parlamentare e presidenza. Una soluzione di emergenza, per evitare gli scogli della coabitazione [8]. Che però presupponeva il permanere di una supremazia dei partiti dominanti.
Oggi l’aumento dell’astensionismo e l’ascesa del Front national, da una parte, e il discredito del Parti socialiste e dei Républicains, dall’altra, hanno reso fragile questa costruzione. Occorre egualmente ricordare che la Francia, nonostante i suoi «valori repubblicani», è, assieme al Regno Unito, il Paese con il sistema elettorale più arcaico, con la sua uninominale e senza la proporzionale. La Francia è addirittura peggiore del Regno Unito, poiché l’elezione a suffragio universale di un presidente dal forte potere politico ne fa l’unico Paese fra i principali dell’Unione europea a essere diretto da un monarca.
In queste ultime settimane Valls e Hollande hanno tentato in varie maniere di soffocare questa crisi politica. Dapprima tentando di imbavagliare il Parti socialistee il suo gruppo parlamentare. Il ricorso al 49.3 per l’adozione in prima lettura della legge El Khomri mirava innanzi tutto a comprimere un dibattito politico pubblico che indeboliva ancor più il governo, ma anche a mettere al passo la minoranza dei dissidenti del PS, cui si è ingiunto di scegliere fra la sottomissione e la rottura attraverso la presentazione e il voto di una mozione di censura. L’opposizione interna socialista ha in parte rimandato il problema. Solo 28 dei suoi deputati (su oltre 40) hanno infatti insistito per la presentazione della mozione. Ora, una mozione di censura per essere sottoposta a voto deve essere sottoscritta dal 10 % di tutti i deputati, e cioè 58, e la mozione di sinistra non ne ha raccolti che 56… In ogni caso, comunque, il PS sta sprofondando sempre più nella sua crisi.
Mentre si indebolisce politicamente, il governo cerca però di affermare con più forza la sua autorità ricorrendo alla repressione. Nelle ultime settimane si è assistito a un crescendo delle violenze poliziesche, a una esaltazione del potere statale, accompagnata dal prolungamento dello stato di emergenza rivolto direttamente contro il movimento, gli scioperi e le manifestazioni. I media, nelle mani del governo e dei grandi gruppi, si prestano a un’operazione propagandistica per mascherare le violenze poliziesche, montando una campagna contro i «casseurs» e cercando di criminalizzare il movimento. Un autoritarismo per nascondere la debolezza del governo e del PS: debolezza nei suoi ranghi, debolezza nell’Assemblea nazionale e debolezza della propria base sociale.
Le prospettive
E così, l’ultimo elemento che caratterizza questo movimento, presente in particolare nei dibattiti di Nuits debout, è la profonda distanza esistente fra le esigenze di democrazia, di decisioni prese dagli interessati e non da “responsabili“ incontrollati, e la realtà del sistema e delle istituzioni. Il sistema politico si rivela profondamente antidemocratico e nello stesso tempo si fa evidente come il potere reale risieda al di fuori delle assemblee elette. Le banche e le multinazionali, i centri del potere capitalistico, non solo fanno le leggi, ma non vi si sottopongono. Il rigetto del sistema finanziario, delle scelte energetiche, della chiusura delle frontiere, delle politiche della disoccupazione e della precarietà sono altrettanti ingredienti che alimentano non solo il rifiuto del sistema politico, ma anche di quello capitalista. È qualcosa di latente nella società, ma patente nei luoghi dove ci si può esprimere, come in Nuits debout. E pertanto, questo movimento ha in sé molte forze e molte debolezze. Le prossime settimane ci diranno quali di queste hanno preso il sopravvento.
Necessità e assenza d’una rappresentazione politica degli sfruttati e degli oppressi
Tutto ciò non fa che sottolineare la necessità e l’assenza d’un partito politico con un discorso e una capacità d’azione unificanti, in grado di federare tutte queste differenze mantenendo la rotta fissa su ciò che deve essere l’obiettivo comune: la lotta generale contro un sistema politico che produce i Panama Papers, Calais e le migliaia di migranti morti in mare, gli sconvolgimenti climatici, la precarietà e la miseria sociale…
Il movimento che sta sviluppandosi mette in discussione finalità e strutture del sistema economico e sociale capitalista, denunciando al tempo stesso la realtà di quelli che sono i veri centri del potere e le regole antidemocratiche della vita politica e della formazione delle decisioni. Pone dunque sul tappeto il problema d’una rappresentazione politica degli sfruttati e degli oppressi e di un progetto di società all’altezza delle esigenze attuali. Le lotte sociali degli ultimi mesi (clima, migranti, Notre-Dame-des-Landes, El Khomri, numerosi scioperi) rappresentano tutte momenti di resistenza al sistema, esigenze, rivendicazioni, e indicano la via d’una società orientata alla soddisfazione dei bisogni sociali che sa darsi gli strumenti politici per realizzarli: strumenti di democrazia reale, di dibattito, di decisione. Lotte sociali e prospettive politiche (politiche, non elettorali) si intrecciano tra loro in continuazione. Tutti questi elementi di lotta, di resistenza, vanno a urtare contro una società di classe brutale, determinata a mantenere e a intensificare lo sfruttamento, che non cessa di modificare le istituzioni nazionali ed europee per farne un centro di potere indiviso, esclusivamente rivolte al mantenimento del sistema, sempre meno sottoposte al controllo democratico e popolare. In meno di un anno l’esperienza greca, il respingimento dei migranti, iPanama Papers, il TAFTA-TTIP, hanno gettato luce su molti aspetti del funzionamento reale di questa società. Su questi problemi è indispensabile che si apra un dibattito sia fra tutti coloro che da anni militano nei movimenti sociali, sia fra quei giovani che, attraverso altre esperienze, sono arrivati a porsi gli stessi interrogativi strategici.
Cosa rara, le questioni istituzionali vengono discusse nelle piazze e negli ambienti militanti. Le attuali istituzioni francesi costituiscono oggettivamente un ostacolo per la volontà popolare. L’esigenza di decidere si accompagna a quella di disporre di strumenti democratici di decisione che siano la fedele espressione della volontà popolare. L’esperienza greca ha dimostrato come le istituzioni capitalistiche possano imporre le proprie scelte anche contro la volontà d’un intero popolo. In questo senso, qualunque idea del tipo «un buon candidato per un buon programma» è agli antipodi rispetto al dibattito attuale: esattamente come è illusoria una strategia istituzionale fondata su vittorie elettorali che potrebbero consentire, nel pieno rispetto delle istituzioni, una politica anticapitalista. Una formazione anticapitalista non può che basarsi sul movimento sociale, sulle sue azioni e sulla sua mobilitazione, le sole capaci di far fronte realmente al sistema. Ciò esige l’elaborazione di esigenze «transitorie» che vadano al cuore del sistema di sfruttamento capitalista, delle oppressioni sociali da esso provocate, nonché delle istituzioni e delle regole antidemocratiche del sistema politico: esigenze transitorie che indichino la via d’una società liberata dallo sfruttamento capitalista e capace di eliminare ogni forma d’oppressione.
LEON CREMIEUX
Il testo originale francese è in «Inprecor», n° 627-628, maggio-giugno 2016
Traduzione di Cristiano Dan
(20 maggio 2016)
foto tratta da Pixabay
Note
[1] Il 5 ottobre 2015 i salariati d’Air France manifestano davanti al CCE (Comitato centrale d’impresa), in procinto di annunciare delle soppressioni di posti di lavoro. La riunione è interrotta e, mentre i padroni tentano di scappare, la camicia del DRH (il capo del personale) viene stracciata. Il contrasto fra la violenza padronale, il rifiuto di ogni discussione, la ridicolaggine del DRH a torso nudo e la repressione che colpisce cinque salariati minacciati di licenziamento suscita in tutto il Paese un vasto movimento di solidarietà. Ancora oggi, in alcune manifestazioni si esibiscono camicie strappate.
[2] Dal 2009 un terreno sul quale dovrebbe sorgere un aeroporto, nei pressi di Nantes, in Bretagna, è stato occupato. È diventato un luogo di vita alternativa: la prima di numerose ZAD (Zona da difendere) contro i GPII (Grandi progretti inutili imposti). È un simbolo molto importante a causa dell’ampio sostegno che ha suscitato, delle numerose manifestazioni e della violenza della repressione governativa (il Primo ministro Ayrault era stato sindaco di Nantes ed è un ardente sostenitore del progetto e della multinazionale Vinci che ha già ricevuto molti soldi pubblici per costruire l’aeroporto).
[3] Il progetto di legge dice che «la preminenza del contratto aziendale in materia di durata dell’orario di lavoro diventa principio di diritto comune ». Si tratta quindi della fine della «condizione di maggior favore»: una norma inferiore (il contratto) non può derogare a una norma superiore (la legge, il contratto di settore) se non quando, e solamente se, è più favorevole.
[Il “principio di favore” nel diritto del lavoro francese è una disposizione che difende le disposizioni piùfavorevoli ai lavoratori quando entrano in contraddizione con altre leggi e regolamenti in vigore. Si basa sull’art. 34 della Costituzione francese e può essere sintetizzato in questo modo: “Quando due norme sono applicabili a uno stesso rapporto di lavoro, bisogna, in linea di principio, scegliere quella più favorevole aisalariati”. NdR]
[4] Testi che nel 2015 hanno spianato la strada alla legge El Khomri.
[5] La petizione on line «Legge del lavoro: no, grazie tante», redatta da militanti delle associazioni e da sindacalisti, e in modo particolare dalla femminista Caroline de Haas, ha raccolto oltre un milione di adesioni in due settimane, battendo ogni record in Francia. Egualmente promosse on line, le manifestazioni del 9 marzo («Noi valiamo di più di questa roba») hanno registrato la partecipazione di 500.000 persone (224.000 secondo la polizia), con alla testa un gran numero di giovani.
[6] L’articolo 49-3 della Costituzione permette al governo di varare una legge senza dibattito né voto in Parlamento. I deputati possono opporvisi presentando una mozione di censura: se questa ottiene la maggioranza, il testo è respinto e il governo deve dimettersi. Per questa legge Hollande ha fatto ricorso al 49-3 per la seconda volta, anche se prima d’essere eletto alla presidenza l’aveva condannata come una «negazione della democrazia».
[7] Les Républicains è la nuova denominazione decisa da Sarkozy per il grande partito della destra, l’Union de la majorité présidentialle.
[8] La “coabitazione” indica la presenza ai due vertici del potere esecutivo (presidenza della Repubblica e governo) di esponenti di partiti diversi e contrapposti.