Lo scontro fra i poteri è, in questo caso, più che altro uno scontro fra la rappresentanza delle condizioni economiche del Paese da un lato e quella delle esigenze politiche dall’altro.
La querelle tra Palazzo Chigi e Palazzo Koch non se non con la presa d’atto che degli aggiustamenti a singole, importanti voci della manovra di bilancio vanno fatte, soprattutto se si considerano le dichiarazioni di Giorgia Meloni per cui il PNRR è imbastevole, tanto quanto il suo più grande fratello continentale (il Next Generation UE), a dirimere gli impedimenti verso una crescita che elimini i segni di perdita davanti ai capitoli di spesa dello Stato.
Non serve a molto l’ottimismo di Salvini sul finanziamento presunto – ovviamente dietro presentazione di un piano anche architettonico, ma soprattutto economico – per l’edificazione del ponte sullo stretto di Messina, a riportare un po’ di ottimismo in seno al governo italiano.
Le tinte fosche della condizione strutturale del Paese, l’impoverimento crescente e le misure dell’esecutivo atte soltanto a dimostrare che la tenuta comunque c’è e che il tracollo è evitabile, fanno il paio con il riversamento della maggior parte delle imposizioni dei costi sulla grande parte di una popolazione che scivola nell’indigenza. Sono i poveri e una parte del ceto medio a subire i conti al rovescio di Giorgia Meloni e di Giancarlo Giorgetti. Le stime dell’ISTAT hanno fatto segnare al PIL di quest’anno un +3,9%, mentre prevedono una brusca frenata nel 2023: +0,4%.
Una crescita impetuosa di corto raggio, di breve durata, figlia della coda pandemica di una economia stagnante per due anni, di una recessione mondiale che ha impensierito lo stesso Fondo Monetario Internazionale e che aveva, solo ultimamente, nello scoppio della guerra in Ucraina un’occasione per rivoltare la frittata, per rimescolare confusamente le carte e cercare di sparigliare il gioco di una geopolitica che sta costringendo gli Stati Uniti ad una rimodulazione della politica economica interna in chiave, ovviamente, globale.
L’Italia del governo nero delle destre estreme personalizza il suo tratto conservatore sul terreno dell’equilibrismo dei conti: le scelte rese prioritarie non riguardano la tutela dei salari, delle pensioni (pur nella rivalutazione di quelle minime, ma al minimo del minimo…) ma la protezione di una fascia produttiva che cresce, sovente, grazie all’intracciabilità degli introiti, alla concretizzazione di ingenti profitti che sfuggono all’imponibilità fiscale, alla regolarità dei rapporti tra acquistato e venduto, tra domanda e offerta, dentro un mondo del lavoro opaco, privo di garanzie e tutele fondamentali.
Il messaggio che il governo vuole dare in questo momento riguarda, pur dentro la critica all’impossibilità di ottemperare a tutte le scadenze previste dall’Europa per l’Italia, una capacità gestionale generale di quei conti che non è affatto detto che reggano alla prova del nove, al confronto con la realtà dei fatti.
E questa realtà riguarda milioni e milioni di persone che devono vedersela con un’inflazione che sfiora il 12%, con salari che non vengono aumentati, con una disgraziatissima abolizione del reddito di cittadinanza tra meno di un anno (almeno per un terzo dei percettori considerati “occupabili“), con la reintroduzione dei voucher in quel purgatorio di sofferenze che sono i lavori a chiamata, come se non si fosse già abusato abbastanza dello sfruttamento schiavistico di centinaia di migliaia di giovani e meno giovani.
Mortificati i primi nella possibilità di mantenersi nel periodo degli studi senza essere costretti ad ore e ore di pedalate impossibili da conciliare con la lucidità mentale; ridotti ad elemosinare i secondi, a portare a casa dei micro-salari per pagare quelle bollette che oggi incrementano i profitti di grandi compagnie, che fanno il gioco del capitale e dell’alta finanza internazionale.
Da un lato, Confindustria protesta per il modesto intervento governativo sull’abolizione diretta e immediata del reddito di cittadinanza, ma rimane scontenta anche per una detassazione dei profitti surclassata dall’inefficacia della flat tax, bandiera di propaganda elettorale e passaggio quasi obbligato per evitare la dispersione dell’ultimo elettorato leghista e parte di quello tracimato nel calderone di Fratelli d’Italia.
Dall’altro lato, la CGIL e la UIL preannunciano un dicembre di mobilitazioni, mentre Giuseppe Conte continua ad erodere consensi ad un PD in balia della fase congressuale, facendo la parte della forza politica progressista del momento. Se Confindustria lamenta la mancanza di una “visione” di lungo respiro, di ampio raggio da parte del governo tanto in materia prettamente economica quanto sul piano dell’estrinsecazione fiscale della stessa, hanno ben più ragione i sindacati a protestare per il segno marcatamente di classe (che non poteva, del resto, essere altrimenti) della manovra.
Si potrebbe, quindi, dire che la manovra scontenta un po’ tutti e non accontenta nessuno tranne un ceto medio-alto che non corrisponde né all’impresa propriamente detta, né al mondo del lavoro in tutte le sue declinazioni contrattuali moderne, quindi con sempre meno protezioni dalle oscillazioni del mercato e dal regime della concorrenza.
Sul fronte progressista, se da un lato è meritevole di attenzione la dedizione riformista che i Cinquestelle stanno mettendo nel sostituirsi a quella sinistra moderata che il PD non ha mai, veramente mai, rappresentato, c’è d domandarsi quanto tutto questo corrisponda ad un reale cambio di passo cultural-sociale-politico dei pentastellati: perché tra il dire e il fare c’è sempre un mare di mezzo e, se si guarda al passato del M5S, non si trovano grandi riferimenti ideali e concreti al tempo stesso sul piano delle riforme sociali.
Conte vede Landini e Bonomi, cerca di costruire una specie di “governo ombra“, ma rischia di farlo in completa solitudine, soprattutto perché le elezioni regionali sono dietro l’angolo e, complice l’ipoteca congressuale democratica sul futuro del PD stesso, il suo movimento vaga solitariamente in questi bilaterali interclassisti che non permettono di consegnare al M5S la patente di nuova forza della sinistra riformista italiana.
Tuttavia sbaglia chi ritiene che non si debba valorizzare, almeno per il momento, in questo stretto frangente di accadimenti, la torsione pseudo-progressista contiana: la sinistra di alternativa, nello specifico Unione Popolare, deve partecipare e farsi protagonista tanto di un dialogo quanto di una interazione nella costruzione delle lotte, nella ricongiuntura delle parti separate di una critica antiliberista che non è certamente uguale per tutti, ma che si intravede in alcune proposte e che, di contro, viene elusa in altre.
Per questo è importante, prescindendo per un attimo da quanto avviene nel rimescolamento correntizio del PD, fissare lo sguardo su un primo tentativo di ricomposizione a sinistra, considerando anche ciò che di sinistra non è mai stato e né ha mai voluto essere etichettato come tale: è, se si vuole stabilire una armonia di contenuti per agire in senso concreto, nella fattualità delle lotte che si apriranno almeno sul piano sindacale, l’interrogativo più importante.
Quello che riguarda ciò che veramente il M5S vuole fare da grande.
Ammesso che sia politicamente tanto cresciuto da aver compreso che il visionario mondo di Grillo e Casaleggio si è infranto davanti alla crudezza di un capitalismo spietatamente liberista e che, proprio un ritorno all’elaborazione di un piano progressista, di proposte sociali che guardino all’attualità del disagio crescente, all’Italia serve una sinistra di alternativa che si affianchi ad una moderata, con una impostazione anche keynesiana, ma che escluda qualunque collaborazione con un centro liberale, che intenda nuovamente scendere a compromessi con le istanze del padronato e del grande capitale.
La politica economica del governo Meloni è una minaccia interclassista che, tuttavia, non riguarda direttamente Confindustria, perché l’interesse primario di Palazzo Chigi è privilegiare sempre il punto di vista delle imprese rispetto a quello del lavoro. Ma sulle contraddizioni aperte dall’attuale fase di destabilizzazione internazionale bisogna innestarsi, lavorare come sinistra di alternativa.
La candidatura di Elly Schelin alla segreteria nazionale del PD è per ora avvolta da una condizione di terzietà, di tattica equidistanza, per cercare di raggiungere un equilibrio congressuale che le consenta di inventare una nuova gestione di un partito ancora troppo immerso nell'”agendadraghismo” degli ultimi mesi, nella rivendicazione di un ruolo solo dentro la cornice del liberismo e delle compatibilità di sistema.
I Cinquestelle, apparentemente, sembrano smentire questa impostazione. Ma manca il coraggio di dirsi alternativi, di voler costruire un “campo progressista” prescindendo dal Partito democratico e guardando a ciò che di sinistra c’è ancora nel Paese: non solo organizzata, ma molto diffusa e, per questo, atomizzata e in attesa di un progetto federatore che non sia la semplice sommatoria di singole forze politiche.
Unione Popolare può essere la parte più “radicale” di questa rimessa in gioco a sinistra. Può diventare un coagulante di tante esperienze differenti che devono convergere in una lotta di massa, in un protagonismo che diventi politico nell’essere prima di tutto una critica sociale diffusa ed inclusiva.
La drammaticità degli interventi del governo in economia di medio e breve termine ci impone di non indugiare. Nemmeno un istante.
MARCO SFERINI
6 dicembre 2022
Foto di Plato Terentev