Quando nel marzo del 1977, in una collana di Laterza diretta da Carlo Muscetta, pubblica la monografia-antologia sul Novecento italiano Franco Fortini non è ancora nel senso comune Franco Fortini e cioè uno dei maggiori poeti del secolo. Ha sessant’anni e alle spalle raccolte cruciali (da Foglio di via, ’46, a Questo muro, ’73), è entrato negli «Oscar» Mondadori con le Poesie scelte (’73) a cura di un giovane fuoriclasse della critica, Pier Vincenzo Mengaldo, eppure la sua ricezione è sfuocata o oscurata da una immagine più aggettante, quella dell’ex redattore di «Politecnico» e poi collaboratore di «Quaderni Rossi» e «Quaderni Piacentini», del saggista di Dieci inverni (’57) e Verifica dei poteri(’65), del traduttore di Brecht ed Eluard, cattiva coscienza itinerante della sinistra italiana o, come pure fu detto, sua implacabile ombra di Banquo.
Soltanto negli anni successivi, fra l’eclissi del decennio antagonista e il principio di una nuova glaciazione politica e culturale, alla sua voce sarebbero stati riconosciuti i tratti della necessità e di una compiuta originalità.
Dunque è probabile che la stesura de I poeti del Novecento – che ora tornano (Donzelli «Saggi», pp. 294, € 28,00) a cura di uno studioso benemerito quale Donatello Santarone e l’annessa recensione che lo stesso Mengaldo pubblicò su «Nuovi Argomenti» nel ’79, – abbia avuto per lui tanto il valore di una complessiva ricapitolazione quanto della messa a punto di una posizione per proverbio refrattaria e minoritaria.
Rigetto delle tendenze
Intanto già nel titolo, quasi atono nella sua semplicità, c’è il rigetto di linee e tendenze che manu militari, fra Grande Stile e Avanguardia, si erano divise il secolo fino alla estrema unzione di Edoardo Sanguineti (Poesia italiana del Novecento, ’69) e in presenza di rare eccezioni (ad esempio Poesie e realtà ’45-’75, a firma di Giancarlo Majorino, che esce da Savelli solo nel settembre del ’77 ma di cui Fortini deve avere avuto senz’altro precedente notizia).
Scandito in cinque capitoli, per scorci storici e un’ampia campionatura, il secolo di Fortini ha forma di costellazione dove pulsano alcune stelle fisse: all’origine i «Vociani» e specialmente Rebora (oltre le ipoteche di Pascoli e d’Annunzio o, in minore, di Gozzano, la cui invadenza è limitata nella misura di vistosi antefatti); Umberto Saba, la cui centralità evade la consueta diade di vecchio/nuovo e piuttosto si ascrive, nei modi di una perpetua lacerazione/ricomposizione, al bisogno di recuperare una totalità umana che si sa perduta; Ungaretti e gli ermetici, attivi tra il fascismo e la guerra mondiale, qui letti come testimoni di una vera e propria età dell’afasia; i poeti definiti dell’esistenzialismo, a partire da Montale la cui opera (massime tra Le occasioni e La Bufera) si staglia, nel connubio di transitività/intransitività, come il massimo esempio ora di resistenza ora di omeopatia al Male secolare e perciò al male indotto da un ordine economico-politico che la sua poesia riceve come tabù e che infatti non può nominare se non nei modi stravolti di una simbologia infera: il contraltare, colui che invoca una parola umana non più dimidiata, si chiama per Fortini, e va da sé, Giacomo Noventa; infine le figure del passato prossimo o del presente, da Pasolini a Zanzotto , da Giudici a Pagliarani, su cui incombono i percorsi dei suoi più grandi coetanei (Luzi e, su tutti, Vittorio Sereni), in un capitolo il cui incunabolo sta nel saggio Le poesie italiane di questi anni uscito in «Menabò» nel ’60.
Il secolo poetico poligenetico
Santarone, nel suo scritto in postfazione, rende esplicita la mozione di Fortini, che se da un lato rifiuta la metafisica dell’assolutamente moderno per cui il «dopo» sovrasta sempre il «prima» (vedi il caso eloquente di Saba) dall’altro è consapevole della natura poligenetica e policentrica del secolo poetico, né oggi può apparire un caso che, uscita per i «Meridiani» nel novembre del ’78 e tra i suoi nomi primi l’autore di Questo muro, la grande antologia di Mengaldo (il cui ventennale rapporto con Fortini è ancora tutto da studiare) si intitolasse a sua volta Poeti italiani del Novecento, nel comune diniego delle «poetiche» più o meno secolarizzate o militarizzate che non sapessero tuttavia tradursi in «poesie».
Scrive Mengaldo nella recensione del ’79: «Non si tratta solo di deferenza, in Fortini, a un bisogno di pluralismo culturale, ma anche di consapevolezza della dialettica e tensione fra programmi e realizzazioni. (…) Fortini sa bene che ai programmi letterari, quale che sia il loro contenuto, magari eversivo, inerisce inevitabilmente qualcosa di affermativo dell’ordine esistente».
La totalità dell’umano
Quanto preme a Fortini, ed è all’origine della sua annosa sottovalutazione (lo si tacciò di petulante ideologo in coabitazione con un inveterato classicista), è la capacità di inverare una forma o meglio di testimoniare in una forma, per allegoria o profezia, la totalità dell’umano. Fosse anche per esprimere, nella coscienza della parzialità, la sua mancanza. È questa la lezione che gli viene dalle Scritture, da una lunga meditazione del marxismo, dai maestri più prossimi, Lukács prima ancora dei Francofortesi, con cui dialoga, a proposito di poesia, nel libro baricentrico della sua saggistica, Verifica dei poteri, adesso riproposto con una appassionata prefazione di Alberto Rollo (Il Saggiatore «La Cultura», pp. 360, € 24,00).
Vi sono contenuti alcuni testi celeberrimi, da «Astuti come colombe» a «Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo», le pagine su Pasternak, Proust, Kafka, Brecht, ma è sintomatico come ancora nel ’69, introducendone la seconda edizione, titolo La poesia ‘regressiva’ e il rifiuto della letteratura, sentisse l’esigenza di concentrarsi sulla nozione di poesia e sul concetto di forma.
Parlava allora a un pubblico fortemente ideologizzato, ai duri e puri della «pratica» rivoluzionaria o sedicente, a quanti, soprattutto giovani, ritenevano che tra la letteratura e la lotta di classe potessero soltanto intercorrere rapporti di evasione e/o di mistificazione. Parlava a tutti costoro ma parlava intanto a sé medesimo mentre veniva coniando l’immagine dell’uso formale della vita, vale a dire della poesia come gesto di riconciliazione spettrale tra vivi e morti, tra parti atrofiche e vive, tra mai-più e non-ancora, fra coscienza della parzialità ed esigenza di totalità nell’essere al mondo.
Insomma sentiva la poesia come anticipazione o allegoria o (questa è proprio la parola-chiave che gli viene da Dante via Auerbach) come figura del comunismo. Scrive a un certo punto, in maniera persino accorata: «Quando parlo di uso formale della vita intendo la possibilità di dare, più che un ordine, una intenzione alla propria esistenza; è l’intenzione a riordinare il passato e il presente. Tale proposta ha avuto nella storia dell’Occidente greco-cristiano e poi in quella protestante-borghese, le caratteristiche di un dover-essere, di tipo – da due secoli almeno – idealistico. Ma tutte le formulazioni che rifiutavano le etiche coscienziali, la salvazione cristiana o l’universalismo kantiano, anche proponevano la tramutazione di tutti i valori, finivano pur con un savoir vivre, con una proposta di vita. Quella comunista – quando parla del libero sviluppo di ognuno e di tutti – non fa eccezione».
Tutto questo si riassume in emblema nel verso che suggella, in Composita solvantur (’94), la parabola poetica di Franco Fortini: Proteggete le nostre verità.
MASSIMO RAFFAELI
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