Tutti i paesi hanno avuto uno o più “padri” del cinema. La Francia può vantare i fratelli Lumière e Georges Méliès, gli Stati Uniti David Wark Griffith, l’Italia Anton Giulio Bragaglia, l’Unione Sovietica Dziga Vertov e Sergej Ėjzenštejn, la Danimarca Carl Theodor Dreyer, il Brasile Humberto Mauro prima e Glauber Rocha dopo, l’intero continente africano Ousmane Sembène. Tutti grandi del cinema, ma tutti uomini. L’Iran è, invece, l’unica nazione al mondo che non ha avuto un “padre” del cinema bensì una “madre”.
La settima arte nell’ex Persia ebbe una buona diffusione prima della Seconda guerra mondiale (da segnalare il regista Ardeshir Irani), ma fu solo dopo il 1950 che iniziò una regolare produzione di lungometraggi, il più delle volte tecnicamente difettosi, che si ispiravano alle pellicole egiziane e a quelle indiane, tra le più importate nel Paese. A fornire i primi tratti del futuro cinema iraniano, una sorta di nouvelle vague, fu la poetessa persiana Forough Farrokhzad.
Terza di sette figli, quattro maschi (Amir, Massoud, Mehrdad e l’attore Fereydoun Farrokhzad) e tre femmine (Gloria e la scrittrice Pooran), Forough Farrokhzad nacque a Teheran il 5 gennaio 1935 da Mohammad Baqer Farrokhzad, militare severo, appassionato di letteratura e dalla casalinga Turan Vaziri Tabar. Una famiglia della media borghesia che abitava in uno dei quartieri più vecchi della capitale.
La piccola Forough cominciò a scrivere prima ancora di iniziare il periodo scolastico e nel 1946, dopo aver concluso le elementari, si iscrisse alla scuola pubblica di Khosro Khavar. Dal 1949 frequentò, invece, la scuola di pittura e di cucito di Kamalolmolk, dove conobbe Sohrab Sepehri (tra i maggiori poeti persiani) con cui instaurò una intensa amicizia. Iniziò in quegli anni a scrivere i suoi primi versi.
Le rigide regole imposte da famiglia e società le stavano strette, Forough voleva conoscere, imparare, studiare, amare. Contro il parere dei genitori il 14 settembre del 1950 sposò il cugino trentenne Parviz Shapur, impiegato di un’azienda petrolifera (negli anni a seguire diventerà autore di caricature fatte con le parole, per le quali è molto conosciuto). La coppia si trasferì ad Ahvaz nel sud dell’Iran. Nel 1951 la giovane donna iniziò a collaborare con periodici letterari (“Ferdousi”, “Omid-e Iran”, “Andishe-o Honar” e “Roshanfekr”) e nel 1952 pubblicò la sua prima raccolta di poesie “Prigioniera”, composto da quarantaquattro liriche, in cui in forma autobiografica, descrisse i suoi tormenti. Troppo per la bigotta società iraniana che la etichettò come “poetessa del peccato”.
Con la nascita del figlio Kamyar, avvenuta il 19 giugno del 1952, aumentarono i contrasti con il marito tradizionalista, sempre più insofferente alla voglia di libertà della moglie. Nell’autunno del 1955 Forough Farrokhzad compì la scelta più difficile della sua vita: divorziò dal marito perdendo per sempre, secondo la legge, il diritto di vedere suo figlio.
Tornò a Teheran, ma l’allontanamento dall’unico figlio, uniti ad altri drammi familiari e sociali, la sconvolse al punto che nel 1956 venne ricoverata per un mese in un ospedale psichiatrico e successivamente tentò in tre occasioni il suicidio.
I drammi della vita non fermarono tuttavia la sua penna. Nel 1955 era uscita la seconda edizioni di “Prigioniera” in cui l’autrice chiese ai lettori di evitare “giudizi morali” e nel 1956 diede alle stampe “Il muro”, curiosamente dedicata all’ex marito.
Ma il 1956 fu soprattutto l’anno di un lungo viaggio in Europa per “liberare la mente dai problemi e trovare l’energia e l’equilibrio necessario per riprendere le attività quotidiane ed artistiche”. Forough Farrokhzad partì da Teheran il 6 luglio 1956 prima alla volta dell’Italia, tra le altre città si fermò a lungo a Firenze e a Roma, poi a fine dicembre in Germania. Tornò in Iran nell’agosto del 1957 per riprendere la sua attività di scrittrice pubblicando i suoi racconti di viaggio intitolati “In un’altra terra” cui fecero seguito altri sei racconti e il terzo volume di poesie “Ribellione”. Benché donna Forough Farrokhzad riuscì ad inserirsi a pieno titolo nell’ambiente letterario iraniano.
Nel 1958 conobbe il regista e scrittore Ebrahim Golestan (Shiraz, 19 ottobre 1922) con il quale nacque un profondo legame sentimentale che la accompagnò fino alla sua morte. Con questo incontro la giovane poetessa entrò in contatto con il mondo del cinema. Nel 1959 seguì il montaggio del documentario Nar (Fuoco) girato durante l’incendio di un pozzo petrolifero, l’anno seguente recitò e collaborò alla produzione del film Tuqus alzifaf fi ‘iiran (Il rito del matrimonio in Iran). Nel 1961 realizzò alcuni documentari commerciali per la casa di produzione Keyhan, la prima indipendente in Iran e curò la colonna sonora del lungometraggio Mawjata, al marjan walsukhur (Onda, corallo e roccia). La nuova attività la portò nuovamente in Europa nell’estate 1959 e nella primavera del 1961 viaggiò in Inghilterra per seguire corsi professionali di produzione cinematografica.
Nel 1962 recitò nel film incompiuto Albahr (Il mare) tratto dal racconto “Perché il mare era in burrasca?” dello scrittore iraniano Sadeq Chubak. Nell’autunno dello stesso anno realizzò, in soli dodici giorni, il documentario Khaneh siah ast (The House is Black, La casa è nera) sulla vita all’interno del lebbrosario di Behkadeh Raji a Tabriz nel nord dell’Iran.
All’interno di un lebbrosario i malati più gravi, ormai privi degli arti la cui unica speranza è la preghiera, coesistono con quelli in cui la lebbra non ha ancora avviato la sua fase più feroce. La vita scorre “serena” tra giochi e piccoli gesti quotidiani, mentre la voce fuori campo di Ebrahim Golestan elenca le macabre caratteristiche della malattia e quella della regista recita versi poetici.
L’unica vera opera cinematografica dell’allora ventottenne Forough Farrokhzad “è una sconvolgente discesa nell’abisso della malattia; il documentario non è un semplice atto di denuncia e di sensibilizzazione, ma anche una forma di resistenza al male e il tentativo, pienamente riuscito, di cercare la bellezza e la speranza anche dove si crederebbero impossibili” (Mereghetti).
Questo piccolo capolavoro fu possibile poiché la regista entrò in completa sintonia con il luogo e con le persone, mostrando la bellezza e l’umanità in un posto orribile. Da segnalare la scena in cui la donna, un tempo bella, continua a truccarsi con grande femminilità e il finale in cui il maestro chiede agli alunni di dire cinque cose orribili e uno di questi risponde “Testa, mani, piedi”. Il titolo si riferisce alla frase scritta sulla lavagna da un bambino. Ancora oggi commuove e sorprende l’abilissima contrapposizione di immagini attraverso il montaggio di piccole sequenze, l’uso di luce, ombra, inquadrature, ritmo e suoni. Purtroppo inedito in Italia.
La critica iraniana accusò la Farrokhzad di usare i malati e di creare “scene orribili”, “sgradevoli” e “sconvolgenti” utilizzate come metafora dell’Iran sotto lo shah Pahlavi, ma nonostante questo il film vinse nel 1963 il premio alla regia all’Internationale Kurzfilmtage Oberhausen (Festival internazionale del cortometraggio di Oberhausen). Ma The House is Black cambiò anche la vita della poetessa. Durante le riprese, infatti, si affezionò moltissimo a Hossein Mansouri, un bimbo figlio di due lebbrosi presente nel film, lo adottò e lo porto con se a Teheran.
Nel 1963 Forough Farrokhzad, benché non accreditata, tornò dietro la macchina da presa per il film Khesht va Ayeneh (Il mattone e lo specchio) diretto dal compagno Ebrahim Golestan in cui interpretò anche un piccolo, ma significativo ruolo. Poi solo più qualche lavoro come aiuto regista per la televisione iraniana.
Sono anni densi e importanti per l’Iran. Forough Farrokhzad difese gli studenti durante gli scontri con la polizia, davanti alla sede dell’Università di Tehran e per questo fu arrestata. Non solo ospitò un attivista ricercato dalla polizia per motivi politici. Poetessa, regista, ribelle.
Nell’estate 1964 partì nuovamente per la Germania, cui vece seguito una tappa in Francia e il ritorno in Italia dove una zingara le lesse la mano e le predisse una morte violenta, come confidò alla sorella Pooran. Nella primavera del 1966 partecipò alla seconda edizione del Festival del Cinema d’Autore a Pesaro, dove conobbe Bernardo Bertolucci, che stava realizzando il film documentario La via del petrolio.
Lo stesso anno il regista italiano si recò in Iran per continuare il suo film che descrive l’avventura dell’oro nero dai luoghi di estrazione nel deserto persiano alla petroliera che attraversa il canale di Suez, raggiunge il porto di Genova, quindi la Svizzera ed infine la raffineria di Ingolstadt, in Baviera. Durante il suo soggiorno Bertolucci decise di intervistare la poetessa, quello che in molti ricordano come un documentario realizzato dal regista sulla vita di Forough Farrokhzad, fu in realtà una bella intervista o meglio una conversazione. La conversazione, censurata in Iran e oggi introvabile (se non qualche frammento) si soffermò sul rapporto degli intellettuali persiani con il popolo, sulla situazione dell’Iran degli anni sessanta e sul documentario The House is Black, in cui la lebbra diventò un simbolo della sofferenza umana. Bertolucci parlò in francese, Farrokhzad rispose in persiano.
Nei mesi seguenti la scrittrice riprese una fitta attività letteraria, componendo versi su complessi temi esistenziali riflettendo, in particolare, sulla solitudine, il declino e la morte. Si avvicinò anche al teatro. Dopo il suo primo lavoro “Mrs Warren profession di Bernard Shaw”, rimasto incompiuto, interpretò, il 9 gennaio 1964, la parte della figliastra in “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello e recitò nel 1966 la parte di Nina nel dramma Il gabbiano di Anton Cechov.
Ma la zingara italiana aveva purtroppo visto giusto. Lunedì 13 febbraio 1967, alle quattro del pomeriggio, di ritorno da una visita alla madre, Forough Farrokhzad perse la vita, a soli trentadue anni, in un incidente stradale nei pressi nel cimitero Zahiroddoleh ai piedi delle montagne innevate di Elburz al nord di Tehran, dove venne sepolta.
Forough Farrokhzad non fu solo la più rilevante voce poetica femminile persiana del secolo scorso, ancora oggi i suoi versi sono tradotti e pubblicati in tutto il mondo (nel 2012 il regista turco Can Deniz Erün ha realizzato un cortometraggio tratto dal suo poema “I Will Greet The Sun Again”) e la sua tomba è meta di pellegrinaggio, ma fu anche la madre del moderno cinema iraniano. A quell’unico film The House is Black si ispirarono Abbas Kiarostami, Mohsen Makhmalbaf, Majid Majidi e Bahram Beyzaie. Mentre lei dovette smettere al culmine della sua creatività artistica, dopo quell’incidente mortale le cui circostanze rimangono tuttora avvolte nel mistero.
redazionale
Bibliografia
“Bernardo Bertolucci” di Stefano Socci – Il Castoro
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2017” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da
Immagine in evidenza immagine tratta dal sito wisemuslimwomen.org e Screenshot dal film La Nouba des femmes du Mont Chenoua, foto 1 da corrieredellemigrazioni.it, foto 2 da it.wikipedia.org, foto 3 da editions-barzakh.fr, foto 4 Screenshot dal film La Nouba des femmes du Mont Chenoua, foto 5 photobucket.com, foto 6 Screenshot dal film La Zerda ou les chants de l’oubli, foto 7 doppiozero.com.