Formule elettorali: i soliti pasticci

Si torna a parlare di formula elettorale e riemergono i soliti pasticci. Vengono avanzate proposte senza capo né coda (il “Rosatellum” 4.0: marchio buono per una marca di vini)...

Si torna a parlare di formula elettorale e riemergono i soliti pasticci. Vengono avanzate proposte senza capo né coda (il “Rosatellum” 4.0: marchio buono per una marca di vini) fornendo anche una volta la dimostrazione che, in materia, questa classe politica riesce proprio a dare il peggio di sé: impresa non facile, considerato il livello “normale” di approccio ai problemi più importanti che affliggono il Paese.

Ci si dimentica con estrema facilità la duplice bocciatura inflitta dalla Corte Costituzionale alle ultime due leggi elettorali approvate dal Parlamento: l’una usata addirittura per tre tornate elettorali legislative generali (2006, 2008, 2013) e l’altra (il famigerato “Italikum”) per fortuna mai approdata alla prova delle urne.

Nel frattempo l’elettorato partecipante si è dimezzato e sono sorte imbarazzanti formazioni pseudo – politiche capaci di raccogliere milioni di voti come se fossero noccioline: nel frattempo questi soggetti di rottura si adeguavano immediatamente alla più vieta “democristianità” nella logica del potere per il potere.

Ci ritroveremo, a questo proposito, sorprese nelle urne: anche perché le contraddizioni sociale mordono sulla vita quotidiana e avranno un loro peso nella ricerca della rappresentanza politica.

 Tornando all’essenziale: s’insiste dunque nel voler acconciare la formula elettorale alle esigenze del momento.

Si discute, infatti, soltanto della formula con la quale si debbono tradurre i voti in seggi e non della legge nel suo insieme, che è materia molto complessa e sulla quale ci sarebbe comunque da verificare parecchie questioni, riducendosi esclusivamente alle esigenze tattiche del momento di alcune forze politiche.

Il tentativo di cui questo Rosatellum 4.0 è emblematico nella direzione indicata dell’episodicità.

Assomiglia al cocktail mal riuscito in un bar di periferia: una spruzzata di maggioritario, due gocce di proporzionale, mescolare forte con una buona dose di capilista bloccati.

Ecco fatto il nostro indigeribile pasticcio.

Difatti abbiamo cambiato formula elettorale tre volte in vent’anni. In verità, in passato, abbiamo cambiato anche la legge, assumendo decisioni sciagurate come quelle in materia di numero di sezioni sul territorio attraverso la “Bassanini” con il loro dimezzamento e ci ritroviamo con sette diversi sistemi per ogni tipo di elezione, europea, politica, amministrativa.

Si dovrebbe anche aprire anche una discussione sull’elezione diretta dei Presidenti e dei Sindaci: causa principale della deleteria crescita nella logica della personalizzazione della politica ed elemento – chiave della crescita, a livello periferico, del deficit pubblico.

Oltre ai malaugurati provvedimenti di modifica del titolo V della Costituzione varati dal centrosinistra nel 2001 a stretta maggioranza e in chiusura di legislatura, con l’improvvisato cedimento a un federalismo che non esisteva allora e non esiste adesso, consegnando così temi delicatissimi come la sanità e ai trasporti agli elettoralismi dei voraci lupi mannari di un’insaziabile classe politica periferica: quella distintasi soprattutto per le “spese pazze” e trasferitasi quasi in blocco in Tribunale ad ascoltar sentenze oppure a patteggiarle.

Torniamo però al nodo centrale di questa discussione: la formula elettorale da usare in occasione delle elezioni legislative generali.

Il punto risiede nel fatto che ci si rifiuta di vedere la questione nella sua semplice interezza.

Esistono infatti, in materia di legge elettorale, due grandi famiglie: quella del proporzionale e quella del maggioritario.

Com’è ben noto al colto e all’inclita la destinazione di viaggio delle due famiglie è assolutamente diversa: quella del proporzionale si dirige verso la rappresentanza politica tenendo conto di tutte le “sensibilità” presenti in una qualche consistenza numerica; quella del maggioritario punta sulla stazione della “governabilità” tendendo – tutto sommato – a una vocazione presidenzialista, quella del governo eletto dal popolo (la famosa frase: “la sera delle elezioni si deve già sapere chi ha vinto per i futuri 5 anni”).

Premesso che la Costituzione italiana è molto chiara su questo punto indicando come l’elettorato elegga il Parlamento e non il Governo e che proprio per questa ragione nell’assemblea Costituente prevalse l’idea della formula proporzionale (corretta, rispetto al proporzionale puro).

Questo orientamento mi pare dovrebbe essere rigidamente mantenuto proprio in ossequio alle radici più profonde ed essenziali della nostra democrazia repubblicana.

Quello che francamente non si capisce al giorno d’oggi è il perché i nostri pasticcioni (non troppo simpatici, per la verità) non si addentrino al cuore della questione scegliendo, nei due campi, i sistemi più chiari e trasparenti allo scopo di favorire la scelta dell’elettorato.

Se si pensa al maggioritario esistono due formule ben sperimentate:

  1. Quella in uso nelle isole britanniche del collegio uninominale a turno unico;
  2. quella in uso in Francia del collegio uninominale a doppio turno (beninteso a doppio turno e non ballottaggio che invece si adopera nell’elezione diretta del Presidente della Repubblica).

Vale la pena ricordare che Gran Bretagna e Francia non sono due democrazie parlamentari, bensì l’una una monarchia costituzionale, l’altra una repubblica presidenziale a regime di semi – presidenzialismo (a differenza degli USA in Francia, infatti, le figure del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio appartengono a due persone diverse).

Nel caso, auspicabile, di una scelta verso il sistema proporzionale la formula meglio collaudata è sicuramente quella italiana usata tra il 1948 e il 1992: formula che ha garantito, attorno ad un partito pivotale come la DC, la governabilità (in quei oltre quarant’anni furono mutate soltanto tre formule di governo: centrismo, solidarietà nazionale per un brevissimo periodo, centro – sinistra con allargamento finale al pentapartito) contenendo sia un premio per i partiti più grandi sia un meccanismo d’esclusione per le frazioni insignificanti.

Può essere preso in considerazione anche il sistema tedesco che però contiene un mix di maggioritario e proporzionale e una clausola d’esclusione abbastanza alta per consentire una rappresentanza adeguata.

Si ricorda che in Germania il numero dei partiti presenti al Bundestag è mediamente di 4/5 (SPD, CDU – CSU, Liberali, Verdi, Die Linke forse si aggiungerà l’estrema destra) mentre alla Camera Italiana tra il 1948 e il 1987 erano presenti mediamente 7/8 formazioni politiche senza contare le micro – rappresentanze etniche.

Nulla di straordinario quindi sia dal punto di vista della concentrazione della rappresentanza, sia della sua frammentazione, in un caso e nell’altro.

In questo momento però non è il momento di indicare formule ma di ricordare con forza il principio fondamentale del valore sistemico e non episodico – strumentale della scelta del meccanismo di traduzione dei voti in seggi e della necessità di una scelta chiara: proporzionale o maggioritario.

Mattarellum, Porcellum, Italikum: pessime prove di soluzioni surrettizie della volontà popolare da non ripetere.

Si abbia il coraggio di scegliere con chiarezza in un frangente così difficili e complesso, in cui le basi di rappresentanza democratica del sistema appaiono tanto fragili da mettere in discussione l’intera struttura repubblicana che sta scivolando pericolosamente verso soluzioni anti – costituzionali delle quali , in realtà, abbiamo già avuto le prime prove di sperimentazione nel più recente passato.

FRANCO ASTENGO

foto tratta da Pixabay

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