Un film inchiesta fa tremare le gambe a chi lo fa, ma ancor di più ai potenti. In queste settimane sta uscendo Food for Profit che denuncia i sussidi europei dati per gli allevamenti intensivi, unendo economia, ambiente, sostenibilità e diritti degli animali. A realizzarlo la giornalista Giulia Innocenzi, che ha lavorato con Michele Santoro e oggi è al fianco di Sigfrido Ranucci a Report, e il regista Pablo D’Ambrosi che mi concede con grande disponibilità un po’ del suo tempo.
Partiamo da te. Sei italo-britannico e hai lavorato per documentari musicali per artisti quali Rolling Stones, Paul McCartney, Jamiroquai, Adele, Joe Strummer e The Clash. Quindi sei passato a realizzare diverse inchieste, anche per la BBC. Com’è stato il passaggio tra due generi apparentemente così diversi?
In realtà il passaggio non è stato così netto, nel senso che ho fatto in contemporanea sempre le due cose.
Mi sono laureato in scienze della comunicazione con una tesi in sociologia, il mio indirizzo più verso il giornalismo. Ho poi iniziato a lavorare per l’Editoriale Domus in Italia, con contratti pesanti, fondamentalmente mi ripagavano delle spese, prima di essere tagliato dopo una riorganizzazione. Quindi ho deciso di andare a Londra, pensando di passare solo i tre mesi estivi, ma alla fine sono rimasto perché ho iniziato a lavorare per la Creation Records, la casa discografica di Alan McGee, che negli anni Novanta aveva scoperto gli Oasis e negli anni Duemila era ancora una casa indipendente, capace di promuovere tanti artisti della scena indie rock britannica.
Lavorando con loro ho conosciuto l’ambiente musicale e sono stato chiamato da gruppi sempre più grandi, fino a poi quelli che hai nominato prima. Sono andato in tournée con i Rolling Stones due volte, che è stata un’esperienza veramente unica, devo dire.
Non deve essere male, no?
Irripetibile, sì. Soprattutto la seconda volta, abbiamo fatto il tour del Sud America, ripreso nel documentario Rollng Stones: A Trip Across Latin America.
Poi, fondamentalmente un po’ per caso, mi è stato presentato un regista produttore alla BBC che aveva bisogno di una persona, di un ragazzo italiano, per infiltrarsi all’interno di alcuni ristoranti di lusso italiani a Londra.
Quel lavoro è andato molto bene e ho così iniziato a fare indagini, con la telecamera nascosta, per programmi della BBC tipo Panorama e This World. Panorama è la testata giornalistica di riferimento per le inchiesta, un po’ tipo Report per dire in Italia. Una tra le migliori al mondo, nata negli Cinquanta.
Per loro ho fatto diverse inchieste. Una sullo sfruttamento dei bambini da parte della mafia rumena e gitana, facendo un viaggio per l’Europa. Dalla Spagna all’Italia, dalla Francia alla Germania, fino alla Romania dove finivano tutti i soldi. Documentario che è stato nominato per un BAFTA e che ha vinto anche il Grand Prix d’Europa, un festival di indagine giornalistica.
Ho fatto poi altri servizi per loro, sulla mafia rumena in Inghilterra, sul gioco d’azzardo.
Inchieste pesanti. Hai rischiato…
Sì, esatto. Soprattutto in Romania con la mafia gitana, ci sono stati veramente dei momenti belli tesi. Non mi sto a dilungare sugli aneddoti, ma dopo la tensione, anche se può sembrare assurdo e paradossale, una volta capito che facevamo un film su di loro erano “orgogliosi” della cosa e si sono aperti molto.
Veniamo a Food for Profit. Com’è nato il film?
Giulia mi ha contattato, tramite un amico comune, per dirmi che aveva raccolto grazie alla LAV delle immagini riprese all’interno di allevamenti intensivi in giro per l’Europa. Oltre ai maltrattamenti, c’erano delle cose che non funzionavano. L’idea mi ha interessato subito…
… avevi già rischiato, perché non continuare?
Esatto, perché non andare contro l’Agribusiness che non sono proprio piccoli.
Quando abbiamo iniziato a scrivere l’idea del film, per noi era importante che il documentario non parlasse solo del maltrattamento animale, che ovviamente è presente, ma anche di altre cose: della distruzione della biodiversità, dell’inquinamento delle acque e del maltrattamento degli umani. Perché questa industria non si ferma in faccia a nessuno, oltre a quello che si vede nel film, abbiamo saputo che molti ucraini, arrivati in Europa per la guerra, sono stati inseriti all’interno di questo sistema.
Il discorso che volevamo fare e che ci ha portato a intitolare il film Food for Profit è questo insieme. Il filo conduttore è il profitto, la logica del profitto dietro questa industria, la produttività che, come dice il presidente della COPA-COGECA, la più grande lobby di carne in Europa, va sopra tutto.
Per loro la cosa più importante è produrre sempre di più. Non si fermano di fronte al maltrattamento degli animali, all’inquinamento, alle condizioni dei lavoratori. Nel film si vedono le immagini di un macello in Germania. Già lavorare in un macello non è l’ideale, ma i lavoratori sono in condizioni estreme, ovviamente non hanno diritto ai giorni di malattia, nemmeno se si fanno male all’interno dei capannoni. Appena abbiamo provato ad intervistarli sono arrivate le guardie ad allontanarci.
Poi c’è l’Italia con il ben noto fenomeno del caporalato, tipico degli allevamenti intensivi, che sfrutta gli immigrati, pagati in nero e a bilico, quindi non a ora ma a carico. Devono fare il lavoro il più velocemente possibile. La produttività.
La denuncia non è, ripeto, solo al maltrattamento animale, che comunque a noi sta molto a cuore, ma verso un sistema legato anche alla politica.
Le immagini sugli allevamenti, sulle condizioni degli animali sono insostenibili, ma non meno forti sono quelle registrate di nascosto con il vostro infiltrato Lorenzo Mineo, finto lobbista, che propone agli europarlamentari progetti aberranti: dal tubo retto nella mucca per produrre direttamente fertilizzanti, al doppio apparato riproduttivo, fino ad arrivare al maiale a sei zampe, senza tuttavia incontrare alcuna opposizione o disgusto da parte degli interlocutori.
Sì, accettavano di tutto, per alcune cose avevano delle remore, perché difficili da presentare al pubblico, ma comunque di “mentalità aperta”. Come ci ha detto un funzionario della Commissione, erano disposti a stanziarci 10 milioni di euro per fare degli esperimenti in Africa, perché se scappa il pollo transgenico così i problemi sono loro. Una mentalità coloniale nel 2024.
Avete presentato il film al Parlamento Europeo, che reazioni avete avuto?
Non c’erano molti parlamentari a vedere il film, oltre a quelli che ci hanno aiutato, ma c’erano, anche se non lo sappiamo di preciso, alcuni esponenti della Commissione per l’agricoltura e due lobbisti, smascherati da Le iene, venuti per filmare il film, fare foto e mandarle a chi di dovere.
Quindi nessuna reazione ufficiale, ma un grande silenzio. Il Parlamento Europeo non ne viene fuori benissimo.
Poi ci sono le situazioni specifiche come quella di De Castro, un punto di riferimento per molti europarlamentari e per l’industria agroalimentare. Nel 2019 non voleva più candidarsi, ma ha avuto forti pressioni dalle lobby per continuare a rappresentare quel mondo.
Negli USA hanno le lobby delle armi e noi queste?
Esatto. Il profitto prima di tutto. Legato a questo c’è un altro aspetto di cui non abbiamo ancora parlato: l’antibiotico-resistenza.
Molti studiosi, ricercatori, scienziati affermano, infatti, che l’antibiotico-resistenza diventerà uno dei problemi principali nei prossimi 30 anni. Potrebbe addirittura diventare la prima causa di morte.
Negli allevamenti intensivi vengono somministrati anche giornalmente quantità inimmaginabili di antibiotici agli animali, perché così crescono più velocemente, hanno più peso e producono più carne. Ma oltre alla sofferenza animale, i batteri purtroppo si stanno evolvendo e resistono agli antibiotici. Cosa che, inevitabilmente, ricadrà anche su noi umani.
La locandina del film richiama Orwell, sembra chiederci “chi è il maiale?”, ma se pensiamo a quello che dicevi prima, all'”editing genetico”, ai polli senza piume che richiamate nel film, i “maiali” siamo noi…
Per la locandina del film abbiamo fatto un esplicito riferimento alla “Fattoria degli animali” di Orwell, con un’immagine quasi distopica per descrivere questo sistema.
Il nostro finto lobbista Lorenzo, ha presentato ai parlamentari delle proposte assurde, come il maiale a sei zampe. Quella era fantasia, ma non ci rendiamo conto che siamo già in un futuro distopico, come dimostra il pollo senza piume realizzato geneticamente in Israele. Vengono così evitati i costi e i tempi dello “spiumaggio”. Ciò incrementa la produttività e il profitto, senza guardare in faccia il benessere del pollo, le piume non sono un ornamento, e la salute. Come dice Peter Singer nel documentario, tutto è mercificato. Il pollo non è più un essere vivente, ma un prodotto che può essere modificato a piacimento.
In alcuni paesi c’è la proposta di realizzare geneticamente delle mucche senza corna. Perché le mucche senza corna? Perché le mucche negli allevamenti intensivi sono, ovviamente sottoposte a stress, a volte lottano e si scornano. E quindi molti allevamenti intensivi cosa fanno? Fanno il dehorning, che vuol dire fondamentalmente tagliare le corna alle mucche…
… cosa fatta anche per il becco ai polli.
Ci sono già tutte queste aberrazioni. Esistono anche delle proposte per modificare geneticamente gli zoccoli delle mucche, in modo tale che possano più facilmente camminare sul cemento all’interno degli allevamenti.
Alcune di queste tecniche di modificazione genetica esistono già, per questo era assurda, ma credibile la proposta di un maiale a sei zampe. Volevamo vedere le reazioni.
Per dirla alla Jannacci, per vedere di nascosto l’effetto che fa…
Il presidente di COPA-COGECA considera questi aspetti positivi. Sostiene che sono per il benessere animale, che è meglio se la mucca cresce senza scornarsi. Le lobby provano sempre ad edulcorare, diciamo così, la realtà, cercando di creare un messaggio positivo dietro queste aberrazioni. Io personalmente, sono contro la modifica genetica sulle piante, sugli animali proprio mi sembra un passo troppo eccessivo.
Oltre ad essere regista sei stato anche il montatore di Food for Profit. Immagino non sia semplice realizzare un film che ha diverse parti registrate con delle telecamere nascoste. In fase di montaggio avete fatto delle scelte particolari? Sul tema immagini, quelle dei maltrattamenti subiti dagli animali, non rischiano di essere respingenti?
Io e Giulia ne abbiamo parlato e siamo sempre stati della stessa idea: trovare un bilanciamento in fase di montaggio tra le immagini forti e le esigenze narrative, senza spingerci troppo oltre. Purtroppo i video raccolti, siamo stati in più allevamenti intensivi in ogni singolo paese, mostrano cose anche peggiori di quelle che si vedono. Volendo potevamo fare un film dell’orrore, ma non era nostra intenzione, ben consci del fatto che molte persone, sensibili alla sofferenza animale, potessero avere una certa repulsione nel guardare il film.
Devo dire che il riscontro che abbiamo avuto dal pubblico è stato quasi inaspettato. Tantissime persone vegane o comunque molto sensibili alla sofferenza animale ci hanno ringraziato, perché siamo riusciti ad ottenere questo bilanciamento, pur mostrando immagini per noi necessarie.
Siamo molto contenti di questa cosa. Per noi era importante.
Tornando ai video tolti nella fase finale del montaggio posso dire, senza voler fare paragoni, che alcuni allevamenti intensivi sembrano quasi dei campi di concentramento. L’atmosfera di morte e di sofferenza è indescrivibile. Non c’è alcuna attenzione al benessere dell’animale, anche se tutti i grandi gruppi dell’Agribusiness mostrano sempre nelle loro immagini pubblicitarie animali che vivono in serenità.
Con riferimento agli ingenti finanziamenti, la tagline del film recita ci sono “387 miliardi di motivi per cui non vogliono che tu veda questo film”. Tu ci hai dato oggi tanti motivi per vederlo, economia, ambiente, lavoro, immigrazione, vita. Stimolando alla riflessione anche un onnivoro come me. Con Food for Profit avete, inoltre, smontato il mito delle “eccellenze italiane” e avanzato delle proposte immediate. Siamo in tempo per cambiare questo sistema?
Cambiare il sistema non è mai facile, anche perché il sistema riesce sempre ad adattarsi.
Come abbiamo visto, in realtà, tutti i 387 miliardi di euro fanno parte del Green Deal. Quindi, in teoria, dovrebbe essere un cambiamento positivo. Pensiamo ad allevamenti estensivi, all’agricoltura biologica, alle energie rinnovabili, ma il sistema riesce sempre ad adattarsi e le industrie del settore trovano sempre un escamotage.
Nel caso specifico, i soldi che la PAC, la Politica Agricola Comune, destina agli allevamenti intensivi figurano come soldi per finanziare le culture destinate a produrre cibo per gli animali. La difesa è quella: noi non diamo fondi direttamente agli allevamenti.
Le lobby trovano sempre un modo. È proprio questo il problema: 25.000 lobbisti, che è un numero spropositato, anche noi siamo rimasti colpiti, che esercitano una pressione enorme a Bruxelles.
Quindi, riusciremo a cambiare il sistema? Sarà difficile, però ci sono vari modi per provarci.
Prima di tutto c’è la scelta individuale. Come dicevi tu, che sei onnivoro, la scelta personale può essere quella di cercare di smettere completamente di mangiare carne o diminuirne drasticamente il consumo e quindi pensare di mangiare carne di una qualità più alta. Molti mangiano carne più volte al giorno senza neanche accorgersene. Una riduzione del consumo sarebbe un grossissimo passo in avanti, anche da un punto di vista ambientale, basti pensare al cambiamento climatico.
Poi, invece, a livello sistemico si può cambiare esprimendo un proprio voto alle elezioni europee o cercando di fare attivismo.
Infine ci sono le proposte che avanziamo. La prima riguarda lo stop dei sussidi pubblici agli allevamenti intensivi, che già creerebbe uno scossone enorme all’industria che con quei sussidi va avanti.
Quindi chiediamo una moratoria alla costruzione di nuovi allevamenti intensivi, perché i progetti continuano ad esserci. Come mostriamo nel film, la Polonia da quando è entrata nell’Unione Europea è stata trasformata in uno dei più grossi produttori al mondo di polli. Un mercato in continua crescita. Fermare la costruzione di nuovi allevamenti sarebbe fondamentale.
Infine aprire una discussione pubblica tramite un’assemblea dei cittadini che possa discutere di questi argomenti. Lo fanno le lobby che hanno il diritto a livello legale di interloquire con i parlamentari e di portare avanti i loro interessi, dovrebbero avere questa possibilità anche i cittadini per poter confrontarsi col Parlamento Europeo. Questo creerebbe almeno un bilanciamento tra il potere delle lobby e il potere dei cittadini.
Siamo ancora in tempo. Non sarà facile, ma più siamo e meglio è.
redazionale
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