Per lungo tempo dimenticato tanto dalla narrazione letteraria quanto da quella storica, in un dopoguerra in cui l’idea di una società globale mostrava già il fiato corto rispetto alla tendenza all’unione oligopolistica di agglomerati di Stati che avrebbero ben presto trascurato l’ispirazione originaria comunitarista in virtù di una sempre maggiore diffusione dei mercati e della concorrenza (e quindi di anche nuove guerre tra i popoli), il nome di Giuseppe Antonio Borgese torna timidamente a farsi sentire in tempi in cui la mondializzazione è tutto tranne che solidarietà tra le nazioni.
Difficile poter dire quale sia stato, nel corso della Storia dell’umanità, uno dei rari momenti in cui i conflitti abbiano lasciato il posto ad una collaborazione vicendevole, reciproca, volta al progresso vero e concreto di una idea di uguaglianza tanto sociale quanto civile. Se facciamo così fatica ad individuare in oltre tre, quattromila anni di cammino umano, un punto della linea cronologica in cui fissare questa percezione di assenza delle guerre, è perché, evidentemente, questo discrimine non c’è.
L’idea dell’universalità dei diritti e dei doveri, di un governo popolare mondiale, di una democrazia quindi che non conosca confini e che sia resa tale ovunque, senza distinzione alcuna, oltrepassando le barriere politiche, le differenze etniche, quelle sociali e i tanti pregiudizi antietici e immorali, è piuttosto antica e la ritroviamo tanto nella filosofia ellenistica quanto in successivi passaggi della storia del pensiero occidentale; per approdare, infine, ai grandi sogni rivoluzionari di trasformazione dell’umanità.
Il cosmopolitismo è tra i primi concetti che i pensatori cinici dell’antica Grecia esprimono come essenza della semplicità di una vita slegata dagli obblighi morali, da quelli che si concretizzano come formalità a cui si deve obbedire nel nome di un interesse comune che, invece, si rivela essere sempre (o quasi) un interesse particolare, di un determinato ceto, di una casta tanto laica quanto religiosa. Il potere è, pertanto, un elemento caratterizzante tanto le polis elleniche quanto le più articolate strutture federali antiche di grandi imperi, come quello romano, in cui l’universalità è concepita soltanto in quanto “concessione“.
Una concessione che lo Stato fa ai suoi cives. Si deve tenere in conto che la parola “cittadino” (“civis“) qui va considerata come espressione più piena di uno ius in cui si stabilisce la correlazione tra persona e istituzioni e si creano le basi del diritto positivo, non come antefatto di una rivendicazione democratica moderna che prevede la sovranità popolare nelle costituzioni affermatesi dal ‘600 in poi con fragorose rotture di equilibri antisociali plurisecolari. La mondialità dello Stato romano è, quindi, non proprio un esempio di globalizzazione dei diritti, anche se la tendenza ad andare in quella direzione c’è.
La velocità con cui la scienza ha progredito negli ultimi due secoli e mezzo, le innovazioni tecnologiche che sono state fatte, anche e soprattutto in materia di confronto e di scontro militare tra poteri, Stati e popoli, ha messo sul tappeto la questione dell’evitamento di queste controversie internazionali. Il dibattito è stato affrontato, almeno a partire dalla Rivoluzione francese in avanti, da un punto di osservazione meramente etico, comprendendo comunque la necessità di una trasformazione sociale inevitabile se davvero si voleva rompere con il passato, dandosi i presupposti per l’eliminazione del maggior numero di incongruenze, di ingiustizie e di iniquità.
La teorizzazione rousseauiana della “democrazia diretta“, certamente la parte ideale e pratica più sovversiva ed estremista rispetto alla conformazione degli Stati e dei poteri di allora, sarà, in questo senso, la punta più avanzata dell’affermazione del principio tanto della sovranità popolare (su scala veramente globale) quanto della partecipazione attiva alla riconfigurazione di una società in cui il dogma della proprietà privata verrà, non per la prima volta, ma di certo con grande impulso e penetrazione nei circoli intellettuali dell’epoca, messo apertamente in discussione.
Sarà il socialismo scientifico a porre la questione in termini di stretta correlazione tra struttura economica e sovrastruttura culturale, civile, religiosa, morale. E, per questo, l’eredità dell’idea di repubblica universale dei popoli, sottintesa nell’universalismo giacobineggiante, si farà strada nel corso dell’Ottocento, e poi per tutta la prima parte del Novecento, come obiettivo del moderno internazionalismo proletario. Sarà Lenin a descrivere l’Unione Sovietica come il presupposto embrionale di una futura “repubblica mondiale dei soviet“, quindi di una affermazione globale del socialismo come autogoverno popolare.
Così, ecco che il nome di Giuseppe Antonio Borgese torna e ritorna quando si parla di repubblica, di mondo, di fine delle guerre e di uguaglianza tra quelle nazioni intese soltanto più come presupposti nominali di una comunanza etnica e non già anche come Stati, come organizzazioni di potere che si dividono fra loro stabilendo dei confini e regolando le proprie attività sociali, politiche ed economiche entro determinati confini. I “Fondamenti della repubblica mondiale” (La Nave di Teseo, 2022) scritti nel lungo periodo in cui visse negli Stati Uniti dopo esservi approdato per un ciclo di conferenze all’Università di Berkeley ed esservi stato costretto a rimanere per la propria contrarietà al regime fascista, sono un preziosissimo contributo a questo interessante dibattito.
Borgese, da acceso interventista durante la Prima guerra mondiale, passa gradualmente ad una sempre più crescente ostilità per un nazionalismo cieco, individualista, che osteggia la declinazione nel sociale dei valori comuni della nazione e che, quindi, si allontana sempre di più dall’idea mazziniana di Italia come unità anzitutto di popolo per essere veramente uno Stato, per essere quindi una “repubblica“. Di pari passo con la dicotomia che avverte nei confronti dell’affermazione del fascismo come potere esclusivo, escludente e totalizzante al tempo stesso, procede la sua sempre più grande distanza da Benedetto Croce, ma per dissensi riguardanti giudizi più che altro di natura letteraria e storiografica.
Nel 1931, mentre si trova da pochi mesi nella grande Repubblica stellata, giunge la notizia che il regime di Mussolini impone a tutti i docenti (in quanto impiegati pubblici) di prestare giuramento di fedeltà al fascismo. Borgese si trova in una sorta di sciaradico problema, tuttavia anche curioso dal punto di vista dei rapporti diplomatici. Lui insegna negli Stati Uniti come dipendente del Ministero degli Esteri italiano, ma il giuramento di obbedienza cieca al regime viene richiesto solo ai docenti in patria. Il console italiano non fa cenno a tutto ciò e Borgese quindi vive nel limbo del “non-giuramento” per un po’ di tempo a metà tra il non-assenso e il dissenso aperto.
Nel 1933 decide di scrivere a Mussolini e di schierarsi. Contro lui, contro il fascismo. E’ una scelta che pagherà con un esilio volontario lì nel Grande paese in cui era arrivato soltanto per un ciclo di conferenze. Vi resterà quasi vent’anni e, alla fine della Seconda guerra mondiale, ritornerà in Italia per essere un’ultima volta applaudito dai suoi studenti e poi, dopo una commemorazione post-mortem in Senato, dimenticato dalla grande divulgazione storica, scolastica e intellettuale. L’opera che prova a spiegare la necessità di una ritrovata fiducia nella democrazia moderna, nel suo essere una esigenza universale per l’inveramento dei princìpi di uguaglianza, libertà e solidarietà sociale, per tanti decenni non sarà nemmeno tradotta in italiano.
Sarà la drammaticità delle tante nuove guerre di fine secolo e di inizio del nuovo millennio a riproporre con forza il tema dell’universalismo e della internazionalizzazione tanto dei diritti quanto dei doveri. Sarà la catastrofe delle diseguaglianze sempre più crescenti a rimettere in moto il dibattito sulla imprescindibilità di una riforma delle Nazioni Unite come idea prodromica di un salto di qualità successivo, di una presa in considerazione di sempre maggiori aggregati di Stati in cui la condivisione degli interessi vada oltre il mero strutturalismo economico.
Leggendo i “Fondamenti della repubblica mondiale” chiunque, in tutta buona fede, è indotto a ritenere tutto questo, alla luce soprattutto dei disastri veramente globali di questi primi vent’anni del Duemila, un utopismo pari a quello che viene evocato ogni volta che socialisti e comunisti moderni pensano e fanno pensare alla necessità del rovesciamento del sistema di produzione capitalistico. A confutazione di un supposto ideologismo sterile da parte dell’autore, si può portare la prova del fatto che l’idea dell’universalismo crebbe in lui quando seppe delle due bombe atomiche sganciate sul Giappone.
La guerra mondiale era finita, ma il prezzo pagato era stato quello della devastazione pressoché totale di interi popoli, attuata con lo scopo genocidiario di cancellare fisicamente le nazioni, con le loro culture e le loro economie. I fondamenti su cui Borgese ispira l’idea e il cammino per arrivare ad un principio di cosmopolitismo moderno discendono da una condivisione delle differenze di ogni tipo e non da una normalizzazione delle stesse sotto un’unica bandiera.
Il presupposto della globalizzazione repubblicana, dell’universalità dei diritti è impedire che si possano ricreare le condizioni contingenti per un utilizzo del malcontento sociale a fini eversivi, con l’intento di concretizzare la teorizzazione della superiorità etnica di una nazione sulle altre e, quindi, rinverdire il razzismo hitleriano, il totalitarismo mussoliniano, lo sciovinismo iberico e, non di meno, la mutazione di grandi idee libertarie in regimi oppressivi ed alienanti.
Rileggere Borgese oggi è darsi l’opportunità di acquisire nuovamente tutta una serie di anticorpi, soprattutto civili e morali, contro un imperversare degli stigmi contro, anzitutto, le minoranze che, solo per il semplicissimo fatto di essere tali, non devono subire, oltre alla pregiudizialità dell’atipicità quasi molesta, anche l’attribuzione di una classificazione di inferiorità evidente e manifesta. L’universalismo reclamato da Borgese non è negazione delle specificità, delle particolarità nazionali e locali. E’ un tentativo di immaginarci come umanità per intero.
E’, in sostanza, uno slancio verso un futuro che necessita di comunione e non di separazione. E’ farsi carico della straordinaria varietà naturale dell’esistenza di ognuno e di tutti entro il contesto di una natura che è, ben oltre il concetto angusto di nazione, la nostra unica, vera patria.
FONDAMENTI DELLA REPUBBLICA MONDIALE
GIUSEPPE ANTONIO BORGESE
LA NAVE DI TESEO, 2022
€ 22,80
MARCO SFERINI
24 gennaio 2024
foto: foto tratta da Wikipedia
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