Il revisionismo ha compiuto una lunga marcia, a partire dagli anni Sessanta, tra Francia, Germania, Italia, essenzialmente. In Italia ha riscosso notevole fortuna, e ha riguardato essenzialmente la vicenda del comunismo e del fascismo: alla squalificazione del primo, ha corrisposto, in contemporanea, il recupero del secondo.
Il processo ricevé una formidabile accelerazione con «la caduta del Muro», e l’immediata sentenza di morte autoinflittasi dal Partito comunista, quando si accettò non soltanto il terreno dell’avversario ma la sua tesi di fondo: la intima natura maligna, del comunismo.
Tale revisionismo estremistico toccò punte clamorose dopo l’avvento di Berlusconi, e lo «sdoganamento» della destra «postfascista» e il suo ingresso in area governativa.
Il giudizio riduttivo sulla Resistenza, la banalizzazione e la successiva demonizzazione del partigianato, in specie comunista, l’equiparazione tra repubblichini e combattenti per la libertà, la retorica della memoria condivisa, e così via, condussero alla celebrazione del «sangue dei vinti».
Il revisionismo giungeva così alla sua fase estrema, il «rovescismo». E qui si pone la «questione foibe», lanciata da un programma televisivo nei primi anni ‘90.
Una vicenda drammatica della storia dell’Europa che tentava di risollevarsi dalla catastrofe della guerra scatenata dal nazifascismo, finiva in show ma, nella disattenzione degli apparati culturali della democrazia, generava rilevanti esiti politici e persino giuridici.
Da capitolo della storia la foiba diventava un marchio propagandistico: il luogo, il simbolo, la bandiera da agitare in ogni situazione, come in passato si fece con l’Ungheria del 1956, o la Cecoslovacchia del 1968. La foiba fu il nome del martirio subìto da centinaia, migliaia, decine di migliaia (l’andamento delle cifre è grottesco) di italiani «colpevoli solo di essere italiani».
Non si vuole sottovalutare la questione dell’esodo forzoso dei connazionali dalle terre del Nord-Est, che comunque va tenuta distinta da quella delle foibe.
In passato, studiosi come Enzo Collotti e Giovanni Miccoli ci misero in guardia però dalla necessità di non sottovalutare il nesso tra foibe e risposta ai crimini del fascismo. Ma già da allora apparve difficile opporsi all’«operazione foibe». La foiba diventò un tabù: l’invito a riconsiderare scientificamente il problema veniva bollato con l’etichetta di «negazionismo».
E nelle foibe venivano affossate le colpe della nazione italiana, che anzi ne usciva con una sorta di lavacro che le restituiva l’innocenza. La foiba diventava, al contrario, il trionfale verdetto sulle irredimibili colpe del comunismo.
La storia, invece, che ci dice? Che il 1945, con le sue tragedie e le sue atrocità, fu la conseguenza di una politica italiana all’insegna di un razzismo antislavo (la «barbarie» di quella gente), fin dalla stessa origine del Regno dei serbocroati e degli sloveni, verso la fine della Grande guerra.
Nell’Italia dannunziana la «Vittoria mutilata», l’impresa fiumana, furono base culturale dell’ondata antislava, che giunto Mussolini al potere, sedimentò nella pretesa di sottoporre la Jugoslavia al «protettivo» controllo italiano, tanto meglio se si fosse potuto frammentare l’unità di quei popoli faticosamente raggiunta.
Il fascismo non arretrò davanti alla pulizia etnica, che nella Seconda guerra assunse le tinte fosche di una violenza inaudita, nella quale gli italiani fascisti non furono inferiori ai tedeschi nazisti. Noi fingiamo di dimenticarlo, o semplicemente lo ignoriamo; ma come si poteva pretendere che quei popoli dimenticassero?
Le foibe, di cui si è volutamente e grottescamente esagerato numero e portata, sono la risposta jugoslava: e i primi a servirsi di quelle cavità per i «nemici» peraltro furono gli italiani. E il più delle volte erano tombe naturali in cui in guerra si dava sepoltura ai morti, sia le vittime di combattimenti, sia persone giustiziate, accusate di crimini di guerra: in quella situazione vi furono probabilmente anche innocenti infoibati. Ma ridurre tutta la vicenda a questo è esempio di profonda disonestà intellettuale e di un pesante uso politico della storia, tanto meglio se i fatti vengono direttamente «adattati» all’obiettivo perseguito.
Che fu più chiaro, con l’istituzione, nel marzo 2004 (II governo Berlusconi), con voto condiviso dal centrosinistra, di una legge istitutiva del «Giorno del ricordo» («dell’esodo degli italiani dalle terre dalmato-giuliane dei “martiri delle foibe”»).
Sabato 10 febbraio ne discutiamo in un convegno a Torino.
In proposito mi limito qui a ricordare quanto scrisse un testimone d’eccezione, Boris Pahor, che giudicò che quella legge «monca, unilaterale, parla del ricordo italiano, tralascia il ricordo altrui», ossia della parte jugoslava, specificamente slovena, che ha subìto un’ampia gamma di crimini e nefandezze da parte italiana.
ANGELO D’ORSI
foto tratta da Wikipedia