I termini sono precisi ma non connotano con altrettanta precisione chi vi potrebbe rientrare. La destra agisce sempre sul doppio binario di un moralismo conservatore che si esprime ipocritamente dietro una facciata di imbellettamento democratico: facciamo vedere che possiamo stare entro questo perimetro costituzionale pur alterandone l’estensione. Insomma, la cornice del quadro complesso dell’Italia fintamente liberale rimane ma viene compressa, pressata dall’esterno all’interno.
In questa fine d’anno, in cui l’economia di guerra continua a farla da padrona, in cui prendono piede le peggiori controriforme della storia repubblicana, dalla giustizia alla sicurezza, dai diritti sociali alle libertà civili, dai diritti umani alla tutela degli interessi pubblici e collettivi, il ministro Piantedosi, nella distrazione generale che esige la notte di San Silvestro, fa le prove dell’ennesima applicazione di una direzione emergenziale dal carattere prettamente preventivo.
Un po’ come quando, in certi momenti della Storia europea (ma non solo) si sono sperimentate le cosiddette “custodie preventive“: in pratica mettere prima in galera un cittadino e poi accertarsi se sia davvero imputabile di un reato. Un po’ il tutto si fonda sull’idea che esistano delle atavicità, degli istinti primordialmente criminogeni in individui che, in un certo qual modo risponderebbero all’identikit del reo a prescindere, del malvivente che “si vede” essere tale.
Pazienza se magari questa notte o altre volte non farà nulla per recidivare vecchi comportamenti illegali o crearne di nuovi. Ciò che per il ministro e il governo conta è una prevenzione che si basi sull’individuazione a monte del possibile elemento di disturbo di un quieto vivere cui anelerebbe la popolazione festante della fine d’anno. La preoccupazione che sia questo il nuovo “esprit de lois” del diritto italiano può a questo punto essere legittima: i segnali di retrocessione antidemocratica, del resto, ci sono tutti (o quasi, visto che se ne scoprono sempre di nuovi).
Legge, rigore, ordine, repressione. Là dove si pensa che i reati possano avvenire si colpisce preventivamente e, dunque, si artefà tutta una rete di garanzie che si uniformano allo spirito egualitario della Costituzione e di una Repubblica che, se non verrà cacciato il governo Meloni in questo 2025 che tra poco si apre, rischia di essere compromessa per molto, troppo tempo. Vero è che, per esempio, la questione dell’autonomia differenziata ha fatto registrare uno stop non di poco conto da parte della magistratura.
Vero è che non tutto quello che Meloni e compagnia pensano di poter mettere in pratica incontra una decisa opposizione da parte soprattutto sindacale: per cui tanto i diritti sociali quanto quelli civili ed umani, sovente sono protetti da una sponda molto più ampia di un fronte democratico e progressista che fatica a farsi largo sia nel Paese reale sia negli incontri bi-tri-quadrilaterali tra le forze politiche e i movimenti. Ma, comunque sia, la destra governa e sregola ciò che è condiviso, solidale, compartecipativo: tenta l’adulterazione delle fondamenta democratiche con brillante sagacia.
Lo fa dai tempi del primo berlusconismo. Continua a farlo oggi, a maggior ragione, con un esecutivo interamente nelle sue mani e che non è di centro-destra, ma di destra-destra, come tante volte abbiamo scritto e ripetuto. La natura iperconservatrice e iperliberista di questo governo non deve lasciare adito a nessuna speranza, a nessun dubbio: loro faranno tutto quello che è in loro potere per cambiare radicalmente l’Italia da democrazia parlamentare a plebiscitario-presidenziale o premieristica che dir si voglia.
Loro faranno tutto quello che gli sarà possibile fare per convincere la maggior parte delle persone che la Storia si può rivivere nella riscrittura revisionistica dei fatti, narrandoli da un punto di vista che è sempre stato quello dei perdenti della Seconda guerra mondiale: di coloro che combattevano per la rivincita del fascismo, per il ritorno al potere di Mussolini e dei suoi sgherri, perché l’Europa potesse avere piantata nel suo cranio devastato e nel suo cuore spezzato la bandiera con la svastica dall’acre odore di carne bruciata nei lager.
Le decretazioni e le veline sull’ordine pubblico sono dunque la premessa di una stretta repressiva ulteriore? Dopo i disegni di legge sulla sicurezza e il nuovo codice della strada salviniano, dobbiamo attenderci l’applicazione severissima della Legge con la elle maiuscola, onnipotente manganello steroidale di un virilismo che si staglia fiero contro ogni teorizzazione gender, contro ogni difformità, contro ogni minoranza? Cosa sarà ancora tollerato? Perché siamo già allo stadio limite della tolleranza come ipocrisia dell’accettazione benevola da parte di chi è un gradino più in su di chi è tollerato.
Ci stiamo abituando ad un morfeico e mortifero abbandono del concetto e della pratica della solidarietà e della condivisione delle differenze? Una parte del Paese certamente. Non è una novità che metà o quasi dell’Italia popolare sia inclinata a destra, abbia sentimenti di repulsione nei confronti di chi non è esattamente come lei e, quindi, consideri il melonismo una sorta di benedizione politica discesa dal cielo due anni fa dopo un lungo cammino di erosione dei voti tanto agli alleati quanto alla sinistra.
Ma un’altra parte della nazione non è ispirata da questi antisentimenti di odio, di pregiudizio, di particolarizzazione, di ghettizzazione delle singole esistenze così come delle comunità sociali, politiche, culturali o di altra natura che siano espressione di una minoranza. La destra campa più che sui timori, su vere e proprie fobie: omotransfobia, xenofobia… Tanto per citarne due che vanno alla grande nell’era melonian-salviniana.
Non esiste nessuna rivoluzione moderna delle destre stesse: sono cambiate, rispetto al passato, soltanto nella misura in cui i mutamenti intercorsi e fatti intercorrere hanno loro permesso, pelosamente, di arrivare a Palazzo Chigi senza più alcun filtro da parte della finzione liberal-berlusconiana di qualche decennio fa. Sono saltati tutti gli argini di contenimento degli eccessi che persino il Cavaliere nero di Arcore ogni tanto scorgeva nella retrività di chi si tiene a casa i busti di Mussolini o di chi pensa che sia in atto una “sostituzione etnica“.
Se l’anno che ci lasciamo alle spalle fosse sinonimo di rottura con un governo che fa male alla Repubblica perché è nocivo nei confronti della democrazia, perché intende il ruolo della politica nazionale come servitrice delle peggiori compromissioni con l’industrialismo padronale e con il neo-atlantismo imperialista, allora sarebbe bello poter brindare sapendo che nel 2025 questo biennio e mezzo di melonismo sarà quasi giunto al termine. Ma, vista l’impreparazione politica delle opposizioni, il rischio che l’esecutivo iperdestroide vada avanti fino a fine legislatura c’è tutto, ma proprio tutto quanto.
Le prove securitarie di fine anno di Piantedosi sono la cartina di tornasole di una ostinazione intrinseca del governo nell’istituire il metodo repressivo come risposta al disagio sociale e alle insicurezze che ne derivano. Si trattano i più deboli e i più poveri come anticipazione di una destabilizzazione congenita alla debolezza e alla povertà: premessa ovvia di una pronta risposta alla lotta delle lavoratrici e dei lavoratori, dei precari, degli studenti e di tutti coloro che protestano per avere più diritti, per lo meno tanti quanti sono i doveri che ci si chiedono.
Il DDL 1660 è, così, il monumento di questa destra alla aperta limitazione delle libertà di espressione, di manifestazione, di organizzazione del dissenso. Un insieme di poteri speciali che il governo si dà e che consegna alle forze di polizia per mettere nel crogiuolo dell’indistinzione chiunque manifesti una contrarietà alle politiche di Palazzo Chigi. La destra non dimentica, perché non ha affatto una cultura democratica e costituzionale, i valori della Carta del 1948. Li disattende volentieri, facendo finta di voler modernizzare il Paese.
In realtà lo avvicina sempre di più allo stile ungherese della democratura, dell’autoritariocrazia: il potere di usare le istituzioni, che dovrebbero essere un luogo di permanenza temporanea di una maggioranza espressa nelle urne, per cambiare le stesse a proprio piacimento, senza garantire pari diritti a tutte e tutti, ma privilegiando una parte rispetto ad un altra. Si impone, non si condivide. Si comanda e non si governa. Governare vuol dire gestire e Meloni e Salvini, nella loro contesa sulla primazia presso l’elettorato di riferimento e dentro la coalizione, fanno a gara a chi è più di destra.
Vince, ai punti dei sondaggi e nelle preferenze personali, la leader di Fratelli d’Italia: perché appare meno rude dell’ex capitano del vascello neonazi-onalista del nuovo leghismo. Ma poi partecipa ad Atreju e mostra il tono da comizio: galvanizzando i suoi si autocelebra e si inebria del pagano furore di un tempo. Alza la voce, urla, strepita e trasfigura la sua immagine di capo del governo. Attacca i giornalisti, se la prende con le opposizioni e non fa un minimo di autocritica su nessuna delle importantissime gaffes dei suoi ministri, sugli scandali in corso, sui processi che dovranno tenersi per alcuni di loro.
Caterpillarmente va avanti: schiacciasassi che non conosce sosta, almeno fino a quando la strada le permetterà di passare e di farsi largo tra le sponde opposte. Per ora la congiuntura le è favorevole. Ma la politica ha tempi, ritmi così veloci da non consentire a nessuno, tanto meno ad un Mario Draghi che veniva descritto come un dio onnipotente sulla terra dai quotidiani nazionali, di sentirsi e dirsi al sicuro da crisi repentine di governo. Lavorare per accelerare queste crisi dovrebbe essere compito di una opposizione ormai consapevole dei rischi che si corrono.
La divisione temporale tra il 31 dicembre 2024 e il 1° gennaio 2025 è una semplicissima formalità. Ma se può servire, almeno psicologicamente, a farci pensare ad un inizio nuovo, ad una necessaria rienergizzazione della politica democratica e progressista per mandare a casa questo governo deleterio e frustrante la democrazia, allora facciamo pure finta che il Capodanno sia importante e che determini una cesura tra l’ieri, l’oggi e anche il domani.
Ricordandoci che qualcuno stasera non potrà festeggiare perché sarà allontanato dai centri storici, dai parchi e dai concerti soltanto per il fatto di avere una faccia da delinquente o di avere un giorno rubato qualcosa… Festeggiamo, ma teniamo bene a mente che tutto questo sta succedendo e che non possiamo nemmeno per un attimo pensare che sia normale, che sia giusto, che stia nei presupposti della nostra Repubblica, del nostro stare insieme come comunità nazionale, come popolo, come Italia che guarda al futuro con la faccia gianicamente rivolta verso un passato che non passa.
MARCO SFERINI
31 dicembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria