Luigi Di Maio cita Pietro Nenni, condividendo l’affermazione secondo cui l’immobilismo, alla fine, non fa altro che sostenere la conservazione. Intanto bisognerebbe capire di che tipo di conservatorismo parla il ministro degli esteri e a che tipo di “evoluzionismo” dei Cinquestelle siamo innanzi.
Perché, se a dieci anni dalla loro nascita come movimento politico, dopo esperienze di governo di grandi città metropolitane, della capitale e dopo due giri di valzer a Palazzo Chigi, i grillini si sono resi finalmente conto che esistono i rapporti di forza economico-sociali-politici, tutti e tre inscindibili nell’espressione di una dialettica storica e attuale che muove le vite di tutti, allora non hanno poi così torto i notisti che rilevano come l’inesperienza dei pentastellati fosse accompagnata anche da una grande ignoranza.
Ma non è così. Giornali e televisioni ricamano su questi particolari da chiacchiericcio e tuttavia non evitano di mettere l’accento su un problema enorme che riguarda il Movimento 5 Stelle: la cosiddetta “classe dirigente“. Che lo si voglia o meno, che piaccia o no, la politica è davvero un’arte molto fine e particolareggiata e ha bisogno di persone che si dedichino alla cura dei beni comuni dopo aver compreso pienamente tanto le dinamiche sociali ed economiche quanto quelle sovrastrutturali di Stato e di governo.
Dai fondatori dei Meetup iniziali fino all’ondata grillina del “Vaffa“, per passare poi alla formalizzazione del M5S, la ragione di nascita di questa forza populista sta anche nell’onirismo visionario di Casaleggio, sostenuto dalla traduzione comico-politica di Grillo; ma più ancora, la ragione di nascita del movimento risiede nella volontà di scompaginare le carte della politica italiana, separando il corpo politico-istituzionale da quello sociale e ricreando, dopo la presunta fine delle “ideologie“, un nuovo rapporto tra popolo e Stato.
L’isolamento iniziale, la fase “purista” del M5S, quella del “mai alleanze con alcuna forza politica“, puntava tutto sulla assolutizzazione dell’alterità che era stata tipica dei partiti comunisti, la cui visione sociale era esattamente opposta a quella di tutte le forze che avevano accettato il mercato come regolatore delle vite di tutte e di tutti.
Qui si trova l’inganno in cui caddero tante persone di sinistra, tante compagne e tanti compagni: ritenere che la marcata e netta differenza del M5S dal resto del mondo politico si fondasse su un presupposto veramente rivoluzionario, cioè teso a proclamare l’ingiustizia di questa società per superarla. Invece, da subito, il movimento ha escluso qualunque critica al sistema capitalistico a tutto tondo e ha sposato un riformismo di stampo nuovo: non lo si poteva classificare come “socialdemocratico” e tanto meno come “socialista“; ma lo si poteva, e lo si può tutt’ora, definire come “critica” agli eccessi del capitale.
Il M5S prova a mostrarsi rivoluzionario nella difesa dei beni comuni: acqua, ambiente, contro le grandi opere (il TAV prima di ogni altra), apparendo certamente più di sinistra in una fase di rimodulazione dei confini politici italiani in cui le forze che avrebbero dovuto essere le eredi di una tradizione progressista fanno invece politiche espressamente liberiste e di destra una volta al governo. Quindi, praticamente, sempre in questi ultimi decenni.
Fino a che Berlusconi era ancora sulla scena, era facile apparire rivoluzionari soltanto urlando ad un recupero dell’onestà da parte degli apparati pubblici: quella parola ritmata (“Onestà! Onestà! Onestà!“) era il programma politico del M5S. Ma non poteva pretendere d’essere un programma rivoluzionario e così il movimento nemmeno, visto che l’onestà non è una prerogativa di una forza politica, un punto di riforma da attuare, ma un comportamento civico, civile, morale e sociale che dovrebbe uniformare tutte e tutti noi nel corso della vita.
Venuti meno i nemici storici (Berlusconi e Renzi) che hanno consentito al M5S di campare di rendita su questi temi veramente populisti, a destra si è aperto quel nuovo spazio per la Lega nazionalista e sovranista di Salvini, mentre nel centrosinistra la svolta di Zingaretti ha permesso a molti di ritenere giunto il momento di una ridefinizione del PD come se avesse ancora la “S” di “sinistra“, ai tempi della “svolta della Bolognina” e del ventesimo congresso del PCI.
La crisi del movimento inizia proprio quando questi due elementi vengono a maturare nel medesimo tempo: emersione del sovranismo salviniano da destra e ritorno di un pallido tentativo di social-liberismo nel PD dopo la fase iperliberista di Renzi.
Non si tratta però soltanto di una crisi di consensi che dimezza, tuttavia, i voti del movimento scivolati ora verso la Lega e ora verso il PD e parzialmente verso Liberi e Uguali. Si tratta di una crisi organizzativa, di vera e propria mancata costruzione di una classe dirigente che, pur avendo come “capo politico” un trentenne e tanti esponenti di spicco molto giovani, non riesce più ad intercettare gli umori popolari e a trasformali in una protesta politica che abbia nel M5S l’interlocutore unico.
L’unicità dei pentastellati entra in crisi quando il populismo viene superato dalla demagogia leghista, dal ritorno ad argomenti di propaganda così beceri da risultare purtroppo convincenti e seducenti per milioni di italiani che vivono nella condizione di un disagio sottoproletario tale da identificare nel povero il nemico primo da combattere con tutte le forze.
Quando capiscono di essere stati superati a destra (molto meno a sinistra, per via della estrema debolezza della stessa) dal sovranismo neoidentitario sul tema dell’immigrazione, della gestione dell’ordine pubblico, del securitarismo xenofobo e razzista, ormai è troppo tardi: le elezioni europee sono passate, i rapporti di forza si sono rovesciati e la Lega, che si voleva in qualche modo gestire con il famoso “Contratto di governo“, prende per qualche mese il sopravvento.
I Cinquestelle approvano tutto: primi fra tutti i famigerati decreti sicurezza che sono la peggiore pagina di disumanità legale di questo nostro Paese dopo le leggi razziali del 1938 (Ad oggi i decreti sicurezza sono ancora lì. Li ha leggermente modificati la Corte Costituzionale con sentenza del 9 luglio scorso, ma l’esecutivo sembra non volerli abolire ma solo modificare).
Seguono la Lega sul fronte dei migranti senza battere ciglio. Provano a smarcarsi ogni tanto, ma quando lo fanno peggiorano la situazione. Le ong diventano “taxi del mare“, ma subito dopo che Saviano solleva la giusta polemica, negano di aver mai pronunciato quella frase.
Ma il rospo che si gonfia troppo finisce per scoppiare: l’opportunità di un rilancio del M5S nell’azione di governo, ormai dominato da Salvini (che surclassa persino Conte, ricevendo direttamente al Ministero dell’Interno i sindacati), arriva proprio in estate. Cade il governo su iniziativa della Lega che troppo vuole e nulla finisce per stringere tra le mani. Nasce uno nuovo esecutivo Conte e una partita che pareva ormai conclusa, si riapre.
Senza lo spauracchio di nuove elezioni politiche imminenti, ora il M5S può riflettere su un cambiamento organizzativo e sulla formazione di una classe dirigente nuova. Ma serve tempo e, soprattutto, occorre consolidare l’azione di governo. La pandemia, in qualche modo, rende indispensabile la continuazione del Conte bis, allunga i tempi e consente anche di muoversi in politica estera diversamente dal passato.
Cambiano le parole d’ordine: “Bisogna governare“, dice Di Maio. Grillo sostiene apertamente l’alleanza con il PD e si apre un fronte dialettico interno tra i militanti e uno più tattico tra la vecchia linea purista di Casaleggio junior e l’adeguamento ai tempi richiesto invece da buona parte del resto del movimento.
Del resto, il tabu dell’incontaminabilità della politica pentastellata con altri soggetti politici viene meno non oggi, mentre si ha la riconferma della scelta della linea alleantista con il PD, con Italia Viva e con LeU, ma già all’avvicinarsi del voto regionale in Emilia Romagna e Calabria: sì alla presentazione del M5S insieme a liste civiche, non con altre forze, anche se di governo.
Per un attimo, la sindrome del “voto utile” sfiora il movimento che arretra pesantemente nelle regioni che vanno al voto anche per una scelta tra due opzioni di coalizione in campo: la pressione del sistema maggioritario è altissima e impone di scegliere tra centrodestra e centrosinistra. Il terzo polo dei Cinquestelle è ridotto a ben poca cosa.
Tuttavia la figura politica di Conte riesce ad emergere dal resto dell’esecutivo grazie anche alla situazione emergenziale creata dal Covid-19, sovrasta persino i segretari dei rispettivi partiti, indeboliti da scissioni, elezioni andate male, scontri interni e lacerazioni che lasciano i primi importanti segni.
Se il voto di ieri sulla “piattaforma Rousseau” farebbe d’impulso gridare alla “grande svolta” del M5S, a ben vedere i passaggi di arrivo a questa stazione ci sono tutti. Non sono sinonimo di coerenza e probabilmente sarebbe anche ingiusto forzare su questo fronte la ricerca di un collegamento tra gli anatemi grillini degli inizi del movimento e l’adeguamento lento, inesorabile verso quelle posizioni cui da sempre il M5S è stato fedele e che solo oggi riconosce come tali mascherandole da “evoluzione” politica.
Né più, né meno di ciò che era prima: una forza politica tutt’altro che rivoluzionaria, trasversale nell’assimilare culture e visioni della società ponendole sotto l’incolore richiamo alla buona amministrazione pubblica, alla tutela dei beni comuni. Piattaforme su cui si può costruire qualunque tipo di progetto partitico, movimentista o genericamente definibile come “politico“.
Chi si era illuso dieci anni fa di un presunto anticapitalismo del M5S, avrà avuto modo in questi anni di ricredersi: il movimento non ha mai avuto alcuna intenzione di mettere in discussione i rapporti economici esistenti, ma soltanto svolgere un ruolo di rimescolamento delle carte politiche per poter rappresentare un nuovo punto di riferimento per le classi dominanti, per l’imprenditoria, per Confindustria, per il vasto ceto medio che oscilla sempre tra nuova ricchezza e vecchia povertà.
Con il voto di ieri su Internet, nonostante il margine non ampio di vittoria (59% a favore della linea delle alleanze e 41% contrario) che esprime tutta la disillusione della parte militante del grillismo d’annata, non si apre nessuna fase nuova; nessuna rivoluzione evoluzionista è in corso. Si certifica solo una contraddizione, sanandola con un consenso di base che permetterà ai dirigenti di affermare tutto e il contrario di tutto.
L’unica rivoluzione consiste in ciò: se mai i Cinquestelle sono stati diversi dalle altre forze politiche italiane, ebbene oggi lo sono certamente meno. Molto meno. Questo è più che altro un “coming out“. Tardivo, ma opportuno. Altro che Nenni e volontà di cambiamento.
MARCO SFERINI
15 agosto 2020
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