“I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente.
Le classi dominanti tremino al pensiero d’una rivoluzione comunista.
I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare.” (Manifesto del partito comunista, 1848)
Rosa Luxemburg sosteneva che chiamare fatti e cose con il loro nome era già un atto rivoluzionario. In effetti il significato di molte parole si è perso nei meandri di una assimilazione generalizzata, una adattabilità dei concetti a qualunque colore politico, un trasversalismo delle idee espresse con le parole che ha finito per cancellare i confini di quelle che vengono tanto vituperatamente chiamate “ideologie”, con spregio, stigmatizzandole come se fosse un danno per l’acquisizione di una coscienza sia politica sia sociale.
Sarebbe bene tornare alla primordialità delle parole, non per storicizzarle e fare una sorta di processo esegetico alle medesime, ma per riappropriarci del significato che ci ha fatto diventare un giorno comunisti e che oggi continua a farci sentire, percepire e voler essere tali.
Oggi, 5 maggio 2018, tutti (o quasi) ricordano i 200 anni della nascita di Karl Marx che ha dovuto ricorrere a neologismi, quindi a nuovissime parole, per definire scoperte scientifiche sul piano economico e dello sviluppo storico del cammino umano.
La stessa definizione di “comunismo”, che all’epoca di quel giovane Marx descritto nel film appena uscito nelle sale era oggetto di contesa in quanto a coronamento di intendimenti politici tesi a cambiare il mondo su un’onda rivoluzionaria, oggi è stata quasi messa da parte: i detrattori ne parlano come di un ferrovecchio del passato, di un anacronismo che non può più servire ad individuare una forma di espressione tanto della politica quanto del sociale per una trasformazione dell’esistente; molti a sinistra ne hanno smarrito l’originarietà e, contestualmente, l’originalità.
“Comunismo” può essere un vago riferimento ad una storia poco conosciuta del movimento operaio e del lavoro in generale oppure può essere la più banale, e quindi più utilizzata, delle etichette per dimostrare quanto il socialismo reale abbia nuociuto all’umanità intera.
Dirsi comunisti, provare ad esserlo faticosamente nella pratica quotidiana e cullarsi in un oblio del significato primigenio del termine di un grande afflato di libertà nato ancor prima di Marx, produce una scissione tra coscienza rivoluzionaria e ad atto rivoluzionario. Tra il pensiero e l’azione.
La scuola delle Frattocchie non esiste ormai più da tanti decenni e poco è stato fatto dai comunisti e dalle comuniste che hanno resistito in questi anni per dare alle nuove generazioni una speranza rivoluzionaria, vivida come ancora lo era quando da giovane ventenne, in quelli che sembrano gli ormai lontani anni ’90, proprio mentre terminava l’esperienza sovietica e crollava quel “capitalismo di Stato” chiamato impropriamente “comunismo”, ancora si avvertiva la “diversità comunista” rispetto a qualunque altra forza politica che – proprio perché non era marxista – sposava il punto di vista del mercato, del liberalismo.
Allora non si era ancora nella fase liberista di sviluppo del capitale e le posizioni politiche più estreme nella difesa del padronato e dei privilegi di classe erano definibili ed ascrivibili nel contesto del liberalismo: nello stesso Pentapartito (DC – PSI – PRI – PSDI – PLI) era proprio il Partito Liberale Italiano quello che riuniva in sé retaggi monarchici, destra imprenditoriale, affaristi e uomini dal grande calibro economico.
Oggi, invece, sono proprio per primi i comunisti ad essersi smarriti in loro stessi, ad aver perso coscienza della loro storia e, soprattutto, ad essere digiuni dell’analisi economica marxista di una società che è profondamente mutata rispetto al secolo Decimonono, ma che comunque è tutt’oggi società di merci, di sfruttamento della forza-lavoro, produzione incessante di plusvalore e di caduta tendenziale del saggio di profitto.
Sono convinto che moltissimi che si definiscono comunisti non abbiano la benché minima nozione in merito e che siano comunisti quasi per indolenza, per un mero ribellismo che li conduce poi ad abbracci mortali con spontaneismi dal sapore movimentista che uccidono la “forma partito” proprio perché non conoscono neppure il funzionamento, e quindi il ruolo, di un partito comunista nella società moderna del liberismo capitalista.
Siamo a 200 anni dalla nascita di Marx. Stupisce persino che un regista abbia voluto fare un film sulla giovinezza rivoluzionaria del “Moro”. Forse qualcosa può muoversi nel senso di una riscoperta del marxismo privo di dogmi, come scienza analitica di un processo di produzione che è stato scoperto in tutte le sue espressioni, arrivando alla previsione (non alla preveggenza) dell’espansione del capitalismo sull’intero pianeta: la così tanto celebre, ormai, “globalizzazione”.
Marx non avrebbe potuto prevedere gli sviluppi bellici del ‘900 e la creazione di una condizione rivoluzionaria nella Russia medievale degli zar. Forse sarebbe stato anche profondamente critico verso un capovolgimento sociale messo in essere non nella Germania economicamente e tecnologicamente avanzata, avamposto di una fiammata proletaria contro il regime della borghesia imprenditoriale. Parimenti fu critico anche verso l’esperienza tragicamente grande ed entusiasmante della Comune parigina pur esaltandola come primo esempio di “governo proletario” nella storia mondiale.
La critica era l’anima dell’elemento di Marx: la lotta. Una lotta fatta di dogmi è priva di significato sociale, di qualunque significato politico. E’ un cieco gettarsi contro i mulini a vento, un immaginare senza analizzare, un romanticismo opposto a quello descritto da Gramsci molti anni dopo nel definire l’essenza rivoluzionaria.
La lotta è passione e la passione è voglia di conoscenza, di studio, di comprensione della realtà per poterla proprio combattere meglio.
Per questo i comunisti e le comuniste oggi hanno bisogno di un rinnovamento culturale che parta anche da Marx, ma da un Marx comprensibile per le giovani generazioni: non è certamente “Il capitale” il libro giusto per incominciare. Comprendere un’opera titanica come “Il capitale” esige prima una conoscenza delle nozioni di base dell’interpretazione materialistica della storia e poi della dialettica stessa del materialismo.
Vogliamo festeggiare i 200 anni dalla nascita di Marx nel migliore dei modi? Leggiamo, rileggiamo, regaliamo una copia del “Manifesto del partito comunista” ad una ragazza, ad un ragazzo. Andiamo a prenderlo in biblioteca, cerchiamo anche su internet e scarichiamolo da qui per tornare alle origini di un pensiero libertario che vuole e può ancora riassurmersi così, se vi chiedono cosa vogliamo noi comunisti: vogliamo l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, la fine del regime delle merci, la fine di ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla natura, dell’uomo sugli animali. Vogliamo l’esatto opposto di ciò che oggi viviamo.
Buon compleanno Karl…
MARCO SFERINI
5 maggio 2018