C’è una caratteristica praticamente innata, intrinseca, congenita nelle grandi dittature, soprattutto in quelle fascista e nazista, ma presente pure nei regimi che si sono susseguiti nel corso del Novecento in tante parti del pianeta e che, a torto più che a ragione, si sono definiti socialisti, democratici, persino socialdemocratici. Questa caratteristica è la falsificazione di quasi tutti i veri propositi che stavano alla base delle azioni politiche di quei governi dittatoriali.
La connaturata propensione del potere alla propaganda a tutto spiano, e quindi alla necessaria obliterazione dell’oggettività dei fatti, si fa in questi regimi elemento davvero strutturale, pervasivo di tutta una costruzione quotidiana di fitte relazioni che vanno dal vertice alla base e che induco – come molto bene ha osservato Ian Kershaw nelle sue opere su Adolf Hitler e sul Terzo Reich – a “lavorare incontro” al volere del duce di turno.
Dovere civico del semplice cittadino e dovere istituzionale del funzionario si uniformano ad una emanazione del potere che sovraintende a qualunque principio precedente e che, quindi, diviene di per se stessa la nuova elaborazione etica dello Stato totalitario che, a ben vedere, nega qualunque altra possibilità di formazione di opinioni, di idee, di critica tanto nei confronti della realtà soggettiva quanto di quella oggettiva che diventa, per questo, unica e perfettamente aderente alla volontà di una maggioranza che finisce col non essere più nemmeno tale.
Questo perché nello Stato fascista non esistono minoranze e, di conseguenza, non esistono nemmeno maggioranze. Esiste, per l’appunto, una totalità, una indistinguibilità assoluta che si risolve nel solo regime e in tutte le sue emanazioni al ribasso. Pensare oggi, in questa fine del 2023, mentre al governo dell’Italia vi sono forze che provengono dalla storia del postfascismo e che sono apertamente populiste e sovraniste, ad una riemersione del fascismo delle parate scenografiche e delle grandi adunate di massa è fare il gioco di chi vuole rappresentare l’antifascismo come un retaggio del passato.
Ma riflettere invece, come ha fatto Antonio Scurati nel saggio “Fascismo e populismo. Mussolini oggi” (Bombiani, 2023) sulle condizioni primordiali che, congiunturalmente, diedero adito alla formazione delle moderne dittature novecentesche, è invece rendere anzitutto un servizio duplice tanto alla memoria storica quanto all’attualità di un presente che ha bisogno di anticorpi costituzionalmente eccellenti in questo senso. Ciò non toglie che, coloro che oggi governano il Paese, siano strettamente connessi ad un passato che rivendicano come storia personale e di partito.
Un passato che ritorna nelle forme e nei modi del vecchio postfascismo nostalgico dei tempi più bui della repubblichina di Salò: per cui si ha in casa un parterre di croci celtiche, busti di Mussolini, bandiere della X Mas, gagliardetti, fez, e qualche edizione rarissima de “La difesa della razza“. Tutto questo si riverbera nelle dichiarazioni improvvide di ministri che inciampano istintivamente, forse poco volutamente visto gli imbarazzi che creano a Giorgia Meloni, in orpelli del Ventennio tradotti nella stretta attualità dei fatti di oggi.
Dai blocchi navali al reato universale della procreazione assistita, dalla difesa delle lingua madre con severe pene per chi trasgredisce in inglesismi di ogni sorta; dalla sostituzione etnica lollobrigidiana ai battaglioni tedeschi che occupavano Roma nel corso della Seconda guerra mondiale e che, niente altro sarebbero stati, se non delle allegre bande di vecchi camerati intenti a suonare magari “Lili Marlene“.
Scurati, sulla scia della trilogia dedicata ad “M, il figlio del secolo“, mette la figura del duce del fascismo a confronto con tutta una serie di movimenti politici che stanno assurgendo a regimi di Stato e che lo fanno, manco a dirlo, col consenso popolare tramite strumenti assolutamente democratici. L’autore, quindi, fa bene a domandarsi, e tutt’altro che retoricamente, come sia possibile che, in un certo qual modo, si ripropongano quelle concause che permisero a Mussolini di sfruttare una contingenza che gli fece intuire tutta l’importanza della propaganda.
Oggi, quegli strumenti di pervasività e di introspezione persino delle incoscienze umane si sono moltiplicati nel numero e nel potenziale. Attraverso la vecchia radio, la moderna televisione e l’interconnettività della rete delle reti si può arrivare non solo all’orecchio e agli occhi di chiunque, ma conoscere anticipatamente i suoi desideri, le sue opinioni, grazie ad algoritmi che sovvertono letteralmente il principio di seduzione dell’elettorato.
I populismi moderni, sottolinea molto bene Scurati, fanno leva, esattamente come il fascismo mussoliniano, sulla paura per esacerbare la disperazione sociale, per creare una scala di disvalori che mette in alto l’identità e in basso la socialità, alla cima di tutto la conservazione e al fondo di tutto l’innovazione culturale, il confronto fra le differenze, l’interazione tra i popoli. Sembra assurdo, ed invece è l’esatta descrizione di ciò che sta avvenendo: abbiamo soprattutto paura della speranze che hanno gli altri e, in particolare, quelli deboli come noi, quelli che vivono del proprio lavoro.
Se il fascismo di Mussolini infonde nella borghesia del primo Novecento, appena uscita dal terrore del “biennio rosso“, una nuova paura per una recrudescenza socialista e comunista, proletariamente operaia piuttosto che contadina (il grande problema rappresentato dal Mezzogiorno d’Italia qui si mostra in tutta la sua inespressione (anti)sociale), e nelle grandi massi l’uguale timore rivolto a dimostrare tutta la destabilizzazione che dalla rivoluzione anticapitalista può derivare, i populismi di oggi hanno come nemici l’uguaglianza sociale e civile, la solidarietà, i diritti.
La destra cambia aspetto, nomi, emblemi, ma non può sfuggire al suo portato storico: la differenziazione come esclusivismo e la stigmatizzazione delle particolarità come classificazione specifica quasi socio-antropologica. Se non proprio alla razza, fa riferimento all’etnicità, alla provenienza per valutare la cittadinanza; al colore della pelle per distinguere tra europei, africani, asiatici, latinoamericani. La distinzione che per prima balza agli occhi è quella della separazione quasi atavica tra Occidente ed Oriente, tra Ovest ed Est, tra Nord e Sud del mondo.
Scurati riconosce nella politica mussoliniana una anticipazione di una serie di tendenze finenovecentesche che si sarebbero, poi, proiettate nel nuovo millennio: la questione nazionale, ossia dello Stato-nazione, si porrà non solo alla fine della Seconda guerra mondiale con la creazione della Comunità Europea per evitare che proprio i nazionalismi siano nuovamente il punto di partenza di nuove mire egemoniche di un paese sugli altri, ma la ritroveremo nella esaltazione delle “piccole patrie“, nei minuscoli particolarismi proprio etnocentrici che prenderanno il via da una serie di egoismi economici indefessi.
La tesi centrale del saggio è che non si possa affatto dare per scontata la democrazia, proprio perché il fascismo rivive nei populismi di oggi. Mussolini – chiarisce molto bene Scurati – è una sorta di archetipo di qualunque leadership di destra, meglio ancora se definibile proprio come “populista” che si sia manifestata verso la fine del Novecento. L’Italia ne ha sperimentato un doppio saggio di caduta della democrazia, salvandosi soltanto grazie all’impianto costituzionale difeso dalla metà più uno del Paese che ha fatto ancora riferimento al vecchio “arco” parlamentare che aveva dato vita alla Carta del 1948, e da cui era escluso l’MSI.
Mussolini è certamente il fondatore del fascismo, a cui si ispireranno i dittatori novecenteschi di mezzo mondo, per primo Adolf Hitler che lo reputerà una specie di maestro, naturalmente superabile in radicalizzazione, efferatezza e terrore (ma questo non autorizza ad affermare che il fascismo italiano sia stato una sorta di totalitarismo meno cruento rispetto ad altri regimi); ma soprattutto è stato davvero il primo capo di governo a fare di sé stesso l’immagine della propaganda, la manifestazione plastica della politica attraverso non solo le parole ma anche la fisicità.
Ostentazione muscolare, protuberanza mascellare, mimica facciale e mani sui fianchi sono stati l’effige della coriaceità di un nuovo corso politico, sociale, morale e civile dell’Italia che era, proprio perché si trattava di una novità su scala mondiale, qualcosa di davvero “rivoluzionario“. Non sarà così improprio, quindi, sentire parlare di “rivoluzione fascista” da parte di Mussolini, ogni volta che rievocherà le gesta delle camicie nere, la Marcia su Roma, l’occupazione del potere con la benedizione di Casa Savoia e dell’industrialismo del nord di una Italietta ancora tutta in costruzione nel suo sentimento nazionale.
Antonio Scurati ci apre gli occhi su tutto questo: ci costringe a fare i conti con un necessario antifascismo che deve rapportarsi proprio con la modernità dei populismi, senza tralasciare la memoria, ma rendendosi conto che la minaccia viene non tanto da qualche migliaia di nostalgici in camicia nera che sfilano a Predappio, quanto dalle nuove politiche trasversali e interclassiste che le destre uniscono alla ferocia di un liberismo che ha, proprio come primo obiettivo, l’aumento dei privilegi per pochi e la gestione esasperata del disagio di tutti gli altri.
In questo chiaroscuro, poi, si fanno strada tutte le mistificazioni e i revisionismi storici possibili. Dalle false notizie che dilagano sul web fino alla riconsiderazione di tutta la storia novecentesca nel nome della “pacificazione” e dell'”unità nazionale” intesa come nuovo collaborazionismo di massa tra opzioni nettamente antitetiche. Il confronto, quindi, fra fascismo di ieri e populismi di oggi riprende più di un piano della vita cosiddetta “democratica” del nostro Paese: dalla stagione stragista e complottista, in cui i colpi di Stato vennero preparati, tentati e mai arrivarono fino al loro ultimo fine, alla nuova maschera della destra postfascista.
Il ventennio berlusconiano ne è un esempio: tutti gli sdoganamenti avvenuti nel corso dei governi del Cavaliere nero di Arcore hanno fatto soltanto da preambolo a quello che stiamo vivendo oggi. La stagione meloniana è possibile perché la destra è maturata istituzionalmente, si è evoluta nel momento in cui ha capito che poteva riprendersi il potere avanzando nuovamente in mezzo al vuoto lasciato dalla sinistra e dalle opposizioni tutte. Soprattutto ha sguazzato nella consunzione anche elettorale delle forze progressiste ma, più di tutto, ha colto l’attimo in cui l’erosione dei valori costituzionali, democratici e libertari ha raggiunto l’apice.
Una sommità raggiunta proprio grazie alla crisi globale tanto economica quanto ecologico-ambientale e, dunque, anche sociale e civile. La messa in discussione dell’uguaglianza come cardine del costrutto istituzionale, e di quello più ancora ampio che riguarda i diritti fondamentali degli esseri viventi, è il segno incontrastato di un passaggio di testimone davvero epocale tra l’edificazione del democraticismo novecentesco, di stampo prettamente liberale, e l’affermarsi di nuovi regimi fintamente sociali e di massa, orientati a quell’anarco-capitalismo mileiano che ora flagella l’Argentina.
Per questo l’attualità di Mussolini oggi è rinverdita e rinvigorita proprio dall’ispirazione che ne traggono questi regimi che si fingono sociali, in quanto si rivolgono alle sterminate masse di disagiati in un capitalismo rapace e spregiudicato all’ennesima potenza, ma che sono i nuovi guardiani del liberismo come elemento strutturale del privilegio modernissimo, della sua attuazione paese per paese in un contesto globale che vive tutte le contraddizioni del restringimento di un campo espansivo a causa della mancanza di risorse primarie.
La domanda che ancora dobbiamo porci è, tra le tante, anche questa: abbiamo fatto i conti col fascismo fino in fondo? Evidentemente no. E, proprio perché il conto è rimasto aperto, oggi la destra può governare il Paese con quella legittimazione che le viene da un consenso popolare che si giova della distanza temporale col passato per affermare che non vi sono più pericoli di autoritarismo in Italia. E che, magari, quell’abominio del premierato è una speranza di innovazione istituzional-politico-sociale per i decenni a venire.
Proprio come lo fu il movimento mussoliniano al suo principio. Un unico al mondo, una novità totale. E totalitaria.
FASCISMO E POPULISMO. MUSSOLINI OGGI
ANTONIO SCURATI
BOMPIANI
€ 12,00
MARCO SFERINI
20 dicembre 2023
foto tratta da Wikipedia
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