Domanda secca di un sito di sondaggi che mi arrivano ogni tanto via mail: “E’ favorevole all’uscita dell’Italia dall’Europa?”. Non faccio il pignolo come mi piacerebbe terribilmente fare, perché la domanda in italiano corretto sarebbe: “E’ favorevole all’uscita dell’Italia dall’Unione Europea?”.
Come fa, infatti, la nostra Italia ad uscire da un continente di cui fa parte? E’ geologicamente impossibile prima ancora che politicamente! Sdrammatizzare un po’ a volte serve a rendersi meglio conto di come sia complesso rispondere alle tanto celebri “domande semplici”, non retoriche: semplici.
O un “sì” o un “no”. Non c’è quel “tertium” che viene dato ogni tanto: non ci si può astenere. Due sono le opzioni e io una delle due l’ho scelta facendo un ragionamento che mi porto dietro da tempo: la contrarietà all’Europa dei mercanti e dei mercati, dell’austerità delle banche e della BCE non inficia un giudizio politico che includa la possibilità di concepire l’Unione Europea come un luogo politico-popolare dove provare a cambiare davvero la rotta.
Per farlo, però, occorre influenzare prima l’economia e poi la politica. Sradicare i poteri economici di Bruxelles anche con la forza di 27 governo socialisti (nel senso nobile del termine “socialismo” che, qui in Italia, è sinonimo sempre e solo di ricordi tangentopolizi…) sarebbe improbabile. Le contraddizioni le apre per primo il sistema capitalistico e lo fa proprio in seno alla politica delle singole nazioni.
Divide et impera, e per imperare, per comandare, per guidare il Vecchio Continente basta accreditarsi non 27 ma poche cancellerie che contano veramente: Germania, Francia, il vecchio Benelux e magari anche qualche paese dell’Est.
Per questo, al sondaggio ho risposto non sono favorevole all’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. Penso che sarebbe un salto unilaterale in un vuoto tanto economico quanto politico. L’Europa ci strangola sotto il primo punto di vista e ci domina grazie agli esecutivi che si susseguono da Monti in poi, senza soluzione di continuità.
Ma sono persuaso che una azione di forza può ottenere risultati soltanto se muove da una consapevolezza di massa, da una condivisione larga che si esprima dal mondo della precarietà e del lavoro fino a quello pensionistico e scolastico.
Per capovolgere l’Europa da intesa economica a intesa dei popoli serve una strategia che Yanis Varoufakis, ex ministro greco dell’economia e delle finanze, ha ben sintetizzato in queste ore presentandi Diem 25 (Democracy in Europe Movement), il Movimento per la Democrazia in Europa che non prevede l’uscita dall’UE ma un percorso di sinistra, radicalmente tale, per superare i liberismi, i sovranismi e i populismi.
Infatti anche molta parte della sinistra che viene definita “minoritaria” rischia di cadere a volte in proclami nazionalistici, da comunitarismo nazionale, in quello che giustamente viene definito il “rossobrunismo”, perché rasenta posizioni che entrano in aperto contrasto con la vocazione internazionalista dei comunisti e delle comuniste; altre volte rischia di cascare, invece, sul versante del populismo, facendo della retorica nel momento in cui propone ricette inapplicabili per il semplice fatto che non esistono i rapporti di forza qui ed ora per poter intraprendere determinate strade di uscita dall’Euro o dall’Europa.
E ha ragione da vendere Varoufakis: prima bisogna uscire dall’empasse della dilagante povertà europea con delle politiche sociali che intervengano in merito e quindi bisogna stare dentro il contesto dell’Unione Europea e arrivare alle stanze dei bottoni per imporre dei cambiamenti che nessun paese da solo è in grado di attuare e, parimenti, occorre impedire che le istituzioni centrali europee riescano a creare nuovi fronti di liberismo per abbattere le possibili alleanze tra i paesi più deboli.
Se però i paesi più in difficoltà come Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, il “fronte mare” dell’Europa, sono governati (con eccezione di Lisbona e di Atene) da forze che sposano politiche liberiste, allora non esistono due linee contrapposte su cui posizionarsi, ma esiste sempre e solo la trazione della locomotiva tedesca e il trainamento del resto della UE.
Dunque, dire di NO all’Europa della BCE, dei trattati del 1957 e di quelli odierni è possibile se si uniscono coscienze popolari e forze politiche per quella che Varoufakis identifica come la necessaria “costituente paneuropea” che dia vita ad una vera e propria Costituzione dell’Unione cancellando definitivamente tutti i trattati che sono interpretabili a seconda delle esigenze del comandante di turno del vapore.
Per questo al sondaggio ho risposto che non sono favorevole ad uscire dall’Unione Europea: perché uscirne vorrebbe dire mettere fine per l’Italia all’ipotesi realistica di ridare forza alla sinistra di alternativa, anticapitalista e antiliberista e contribuire a far crescere sentimento e coscienza sociale per sovvertire l’attuale stato di cose presente fondato solo sul mercato, sulle speculazioni finanziarie e lo sfruttamento di decine di milioni di moderni proletari.
Un tempo dicevamo che “un altro mondo” era possibile. Lo deve poter ancora essere. Cominciamo dalla nostra Europa: quella che mette avanti prima di tutto il lavoro, la scuola, la sanità, le pensioni e il ruolo del pubblico su tutti questi grandi ambiti di investimento sociale.
Senza il ritorno al “pubblico”, senza la sconfitta del dogma del “privato” e dell’arricchimento come fenomeno di progresso sociale (eredità di un’etica protestante che viene da lontano e proprio dai paesi nordici), nessuna nuova Europa è possibile e, insieme, nessuna nuova Italia.
MARCO SFERINI
26 marzo 2017
foto tratta da Pixabay