Un “percorso dal basso” è il nuovo mito costituente di qualunque tentativo di riaggregazione della moderna residualita della sinistra propriamente detta di questo Paese.
Non bisogna negare la crisi delle idee progressiste: prima fra tutte la concezione egualitaria che dovrebbe essere una delle pietre angolari storiche del movimento dei lavoratori tradotto nella sua rappresentanza politica. Oggi questa rappresentanza non ha una precisa connotazione ideologica e, forse anche per questo, fatica a trovare un comune denominatore programmatico su cui innestare una diversità rispetto a tutte le altre proposte in campo.
La diversità era, ancora pochi anni fa, l’elemento distintivo che permetteva a tutti, sia che fossero comunisti sia che fossero detrattori del comunismo, di riconoscere che il parterre delle forze liberali e liberiste stava su un piano di accettazione delle regole del mercato, quindi di piena condivisione dell’assunto per cui non vi era possibilità di uscita dal sistema capitalistico e che questo era il migliore dei mondi possibili, mentre una forza comunista era sovente schierata sul fronte nettamente opposto.
Un fronte di critica senza appello al capitalismo, spingendo politicamente e socialmente per un cambiamento a cento ottanta gradi della società. Questa propulsione politica ha ispirato molte giovani generazioni che si sono formate non sulla base del mito rivoluzionario bensì della condivisione di un progetto che era accarezzato proprio con la costruzione della soggettività particolare dell’identità comunista cresciuta con lo studio approfondito delle dinamiche merceologiche.
Cio manca oggi in Italia, e non manca soltanto nell’assenza di scuole di partito che illustrino l’alternativa possibile proprio sulla fondatezza dei dati analitici che la cruda realtà del liberismo ci sbatte in faccia ogni giorno, ma manca, perché é venuta meno, una capacità tutta civica di percezione della comunità in cui si vive come qualcosa di interattivo con il resto del mondo.
L’esclusivismo antisociale ha prevalso grazie alle tante mitizzate paure del nostro tempo: per i migranti che sbarcano sulle coste italiane si grida all’ “invasione” mentre non si è in presenza di nessun assalto alla società italica, alla sacralità dell’autoctonismo di diritti che sono stati smantellati non dalla “minaccia migrante” bensì dalle politiche privatizzattrici degli esecutivi che si sono succeduti in questi decenni; se poi si parla dei rom e dei sinti, allora dall’ “invasione” si passa ad un altro mito, quello del “furto genetico”. Se sono “zingari” è evidente che sono ladri.
Pare di vedere le paure ottocentesche contro emigranti e zingari ributtarsi non nel già moderno e “civile” ‘900, ma piombare armi e bagagli nel modernissimo nuovo millennio come se fossero attuali: una attualità del passato che è ruggine razzista mai cancellata del tutto, tramandata di generazione in generazione sulla base di una delle caratteristiche umane più endemicamente nascoste (nemmeno poi tanto) nel fondo di noi stessi: il pregiudizio che deriva sempre e solo da qualche paura inconfessabile, accettabile solo se ci si rende conto che non si è da soli “nel pensarla così”.
Ebbene, in questo scenario di rigurgiti fascisti, questi sì riemersi “dal basso”, cosa fa la sinistra anticapitalista, antiliberista, genericamente tale, comunque quella che si definisce altro dalla mutazione genetica irrefrenabile del PD da partito di centrosinistra a partito di centrodestra? Sceglie, almeno a parole, di costruirsi, di ricostruirsi “dal basso” e lo fa con tanti begli interventi al Teatro Brancaccio orma mesi e mesi fa…
Le intenzioni che vengono proclamate in queste assemblee, quasi autoconvocate, hanno sempre un sapore di nobiltà d’animo ispirata da altrettanto nobili intenti. Poi accade che questa nobiltà d’animo debba lasciare il passo – così almeno pare in queste ore – a patti tripartiti, di partiti che hanno fino dall’inizio fatto parte del cammino comune e di altri che ne stanno entrando a far parte ora o per scelta o per disperazione.
Non essendo riusciti a diventare il nuovo centrosinistra che aspiravano essere, si rivolgono ora a più mesti lidi e provano a raccattare ciò che possono per un mero fine elettoralistico. L’esatto contrario del progetto del Brancaccio: riposizionare intenzioni e programmi sulla base di un civismo nuovo, di una partecipazione veramente multipla e corale, costruita sul rispetto reciproco tanto delle singolarità quanto delle organizzazioni politiche collettive.
Credo che le comuniste e i comunisti possano e debbano stare in un percorso di questo genere perché hanno il dovere di contribuire a farne un esperimento di riscossa della sinistra di alternativa piuttosto che prendere parte ad un semplice assemblaggio di sigle per superare le asticelle delle funamboliche leggi elettorali di volta in volta approvate da maggioranze parlamentari mai veramente legittimate da altre leggi elettorali dichiarate incostituzionali.
Credo che le comuniste e i comunisti possano e debbano continuare a dire la loro al Brancaccio: lo devono fare il 18 novembre prossimo con chiarezza, esprimendo un dissenso netto sia sul metodo sia sul merito dell’esercizio di condizionamento, anche indiretto (concediamo un ingenuo beneficio del dubbio a tutta questa pantomima), che Mdp, Sinistra Italiana e Possibile hanno innescato con un documento comune che è legittimo ma che non consente a tutte e tutti di partire con la discussione dalla stessa posizione nella linea di partenza.
Se esistono già degli accordi, è evidente che si prefigurano delle forzature “di maggioranza” per esercitare pressioni politiche in una assemblea che deve poter avere altre caratteristiche di gestione della dialettica tanto sui programmi quanto sui metodi organizzativi della lista che si intende andare a costruire.
Il 18 novembre resta dunque l’unica data utile per comprendere cosa accadrà a sinistra. Saltare alla data della “costituente” del 2 dicembre con la giornalisticamente ipotizzata incoronazione di Pietro Grasso a leader della nuova aggregazione o partito della sinistra moderata in contrapposizione al PD è fare torto ad un cammino comune che può rimanere tale solo se nessuno pretende di acquisire dentro ad un progetto già visto, fatto di moderazione e di compromessi magari successivi con le forze di un futuro governo per evitare “che le destre prendano il controllo di Palazzo Chigi”, un insieme di volontà che aspira a qualcosa di più: a reinserirsi nel Paese reale, a farsi riconoscere come altro da tutto il resto. Tornando ad essere quella “diversità” che oggi manca nella società e nella vita politica italiana.
MARCO SFERINI
12 novembre 2017
foto tratta da Pixabay