Scendere a patti con le logiche istituzionali è cosa ben diversa dal rendersi conto della propria non autosufficienza in tema di governo del Paese. Si può, infatti strillare per anni ad una splendida autonomia capace di scacciare i demoni della ricerca delle alleanze, facilitati dalla presentazione autonoma nelle elezioni locali con risultati peraltro eccellenti, ma quando le regole del gioco le stabiliscono coloro che governano e costringono alla creazione di coalizioni per arrivare a Palazzo Chigi, allora se non proprio nella fase del pre-voto, almeno in quella immediatamente successiva un pensiero ad un appello ai gruppi parlamentari che si formeranno va fatto.
E, infatti, è su questo crinale che oscillano le divergenze tra Luigi Di Maio e Beppe Grillo: il primo possibilista in tema di apertura del dialogo per “non lasciare il Paese senza un governo“, il secondo invece risolutamente fedele all’impostazione primigenia del Movimento 5 Stelle del “nessun patto, nessuna alleanza con altre forze politiche”. E’ un bel dilemma per un partito o soggetto politico che dir si voglia che si appresta, secondo i sondaggi, ad essere la prima forza in quanto a numero di voti.
Ma la combinazione programmatico – politica delle maggioranze non è solo un ingarbuglio per chi aspira in prima istanza a governare la Repubblica: lo diventa anche per chi si trova in una posizione di minoranza ma può diventare un sostegno per il Pantagruele che non riesce ad avere altezza e forza tali da reggersi da solo in piedi.
Ed allora le lacerazioni sono inevitabili, perché è ovvio che vi siano propensioni differenti nel voler intendere il proprio ruolo sociale e politico tanto all’interno di una singola forza politica quando all’interno di una coalizione. E francamente, vedendo ciò che accade in queste, ora non pare che vi sia grande differenza tra le due impostazioni: tanto Liberi e Uguali di Grasso quanto le coalizioni Biancaneve e quelle dalla tre o quattro gambe sono attraversate dagli stessi dilemmi.
Le uniche diversità riguardano l’egemonia interna che viene giocata non gramscianamente parlando in quanto elemento cultural-popolare che si erge a guida di un programma politico, ma più miseramente parlando in quanto tatticismo dentro ad una strategia priva di significato perché determinata non dalla propria volontà di azione ma da un regolamento elettorale privo di un vero stampo democratico.
C’è dunque chi, molto banalmente, litiga per la supremazia elettorale a destra e la conquista del titolo di “aspirante premier” e c’è, poi, chi litiga perché non gli viene riconosciuto il diritto di essere rappresentato – a detta sua – adeguatamente nella ripartizione dei collegi assegnati alle forze di coalizione. Ma del recupero di una identità di idee e di una formulazione di programmi che vi si ispirino, praticamente nessuno di questi “giganti” della politica parla, né tenta una benché minima espressione in merito.
La frenesia elettorale è come Saturno, divora i suoi figli perché li ha creati tali ante litteram rispetto ad ogni appuntamento per l’elezione del nuovo Parlamento. Massimo D’Alema ha scompaginato la tranquillità della sua formazione neonata perché, in tutta sincerità, ha detto molto semplicemente la verità: per un soggetto socialdemocratico, di sinistra moderata è naturale dialogare con il più prossimo vicino di centrosinistra.
Del resto, MDP che ricopre in Liberi e Uguali un ruolo di molto peso possiede questa vocazione al rinnovamento di un campo aperto della sinistra che torni ad unirsi ad un centro democratico e quindi nessun stupore se un “governo del Presidente” andasse anche oltre la semplice intenzione di Grasso di appoggiarlo esclusivamente per la formazione di una nuova legge elettorale.
Alla fine prevale sempre la sacralità dell'”interesse del Paese”, dell'”interesse nazionale”. Vorrete mai lasciar campo libero ad altri tipi di alleanze cui il PD potrebbe essere tentato? Forse il governissimo di larghe intese con Forza Italia se questa si trovasse dietro di uno o più punti rispetto alla Lega di Salvini e fuggisse dall’ipotesi di un governo a guida del capo del Carroccio?
Tante sono le dinamiche della campagna elettorale e le contraddizioni che ne nascono in seno sono i veri atti compromissori che fuoriescono dagli antri imperscrutabili durante il resto del tempo della legislatura. Qui e ora ci si gioca tutto per molti e quindi viene fuori la belva sopita, il vero volto di ciascuno schieramento.
E’ bene saperlo. E’ bene essere consapevoli che solo un gruppo di coraggiosi ha l’ardire di dichiarasi sì interessato alla tornata elettorale ma di essersi ritrovato attorno ad un progetto che si concretizza in una lista per andare anche oltre tutto ciò. Per affermare un principio che forse avevamo smarrito anche noi comunisti da molto tempo: siamo stati “elettoralisti” per troppo tempo, costretti dalle circostanze, da una concorrenza politica che non ci concedeva tregua nel pensarci anche come “forza sociale“.
Abbiamo provato ad esprimerci in questo senso: abbiamo tentato di prestare attenzione ad un reinserimento nella classe sociale di nostro riferimento. Ma abbiamo fallito. Non siamo riusciti a smarcare l’attenzione degli sfruttati, dei moderni proletari da un odio non di classe ma “di casta”. Una avversione quasi ancestrale, molto interna, profonda ma molto poco ragionata: eppure questa contrapposizione a-classista ha generato una disaffezione verso la sinistra, l’ha vista come parte del problema e non come una possibile soluzione ai disagi sociali che si vivono e che sono in crescendo.
Così, Potere al Popolo! non diventa solo una speranza per un nuovo movimento comunista, per una nuova critica sociale, per un nuovo anticapitalismo di massa: diviene anzitutto una uscita possibile dalla crisi anche culturale in cui eravamo piombati e da una concezione della politica esclusivamente legata alla rappresentanza nei palazzi istituzionali. Sottrarsi alle contraddizioni compromissorie della campagna elettorale è difficile forse per chi ha come obiettivo soltanto la “governabilità” del Paese. Non da sinistra, ma da destra o dal centro. Da sinistra, al momento, non si può pensare perché non si può fare.
Dunque, la prospettiva è ampia, il lavoro lungo. Come diceva Lao Tse: «Non guardare la strada che devi ancora percorrere, ma guarda quella che hai già percors». E se anche fosse poca, per ora, sarebbe già molto viste tutte le difficoltà che abbiamo avuto e che ci troviamo innanzi. Guardiamo indietro solo per vedere ciò che abbiamo fatto di buono per recuperarlo come insegnamento e abbandonare ciò che abbiamo invece sbagliato: credere che si potessero unire culture di esclusivo governo con culture di lotta e di voglia di cambiamento sociale da un diverso punto di vista. E ora… camminiamo senza voltarci troppo.
MARCO SFERINI
20 gennaio 2018
foto tratta da Pixabay