Dopo una serie di informazioni, le più contraddittorie, riceviamo infine qualche notizia degna di fede sui particolari della meravigliosa marcia di Garibaldi da Marsala a Palermo. E’, indubbiamente, una delle imprese militari più straordinarie del secolo, e sarebbe quasi inspiegabile se non fosse per il prestigio che precede la marcia di un trionfante generale rivoluzionario. Il successo di Garibaldi dimostra che le truppe regie di Napoli sono ancora terrorizzate dall’uomo che ha tenuto alta la bandiera della rivoluzione italiana di fronte ai battaglioni francesi, napoletani, e austriaci, e che la popolazione siciliana non ha perso la fede in lui, o nella causa nazionale.
Il 6 maggio, due battelli lasciano la costa di Genova con circa 1.400 uomini armati, organizzati in sette compagnie, ognuna delle quali, evidentemente, destinata a diventare il nucleo di un battaglione da reclutarsi fra gli insorti. L’8 sbarcano a Talamone, sulla costa toscana, e persuadono il comandante del forte là situato, con chissà quali argomenti, a fornire loro carbone, munizioni, e quattro pezzi di artiglieria da campo.
Il 10 entrano nel porto di Marsala, all’estremità occidentale della Sicilia, e sbarcano con tutto il loro materiale, nonostante l’arrivo di due navi da guerra napoletane, che non sono in grado al momento giusto di fermarli; la storia dell’interferenza britannica a favore degli invasori si è dimostrata falsa, ed è ora abbandonata anche dagli stessi napoletani. Il 12, la piccola banda aveva avanzato su Salemi, a diciotto miglia di distanza nell’entroterra, sulla strada di Palermo. Sembra che i capi del partito rivoluzionario abbiano incontrato Garibaldi, si siano consultati con lui, e abbiano raccolto rinforzi tra gli insorti, circa 4.000 uomini; mentre questi venivano organizzati, l’insurrezione, repressa ma non domata poche settimane prima, si rinfocolò di nuovo su tutte le montagne della Sicilia occidentale, e come fu dimostrato il 16, non senza effetto.
Il 15, Garibaldi con i suoi 1.400 volontari organizzati e i 4.000 contadini armati, avanza verso nord attraverso le colline, verso Calatafimi, dove la strada di campagna da Marsala si congiunge con la strada maestra che va da Trapani a Marsala. Le gole che conducono a Calatafimi, attraverso un contrafforte dell’alto monte Cerrara, chiamato monte del Pianto dei Romani, erano difese da tre battaglioni di truppe regie, con cavalleria e artiglieria, sotto il comando del gen. Landi. Garibaldi attaccò subito questa posizione, che in un primo tempo fu ostinatamente difesa; ma sebbene in questo attacco non avesse potuto impiegare contro i 3.000 o 3.500 napoletani niente più che i suoi volontari e una parte molto piccola di insorti siciliani, i regi furono successivamente scacciati da cinque forti posizioni, con la perdita di un cannone da montagna e numerosi morti e feriti. Le perdite dei garibaldini sono stimate da loro stessi in 18 morti e 128 feriti.
I napoletani dichiarano di aver conquistato una delle bandiere di Garibaldi in questo scontro, ma, avendo trovato essi una bandiera dimenticata a bordo di uno dei battelli abbandonati a Marsala, è possibile che abbiano esibito questa stessa bandiera a Napoli come prova della loro pretesa vittoria. La loro sconfitta a Calatafimi, tuttavia, non li costrinse ad abbandonare quella città la sera stessa. La lasciarono solo il mattino seguente, e dopo sembra che non abbiano opposto ulteriore resistenza a Garibaldi, finché non raggiunsero Palermo. La raggiunsero effettivamente, ma in un terribile stato di disgregazione e disordine.
La certezza di aver dovuto soccombere di fronte a semplici “filibustieri e ad una feccia armata” ricordava loro tutto d’un colpo la terribile immagine di quel Garibaldi, che, mentre difendeva Roma contro i francesi, poteva trovare ancora il tempo di marciare su Velletri e di far fare dietro front all’avanguardia dell’intero esercito napoletano; di colui che in seguito aveva conquistato sulle pendici delle Alpi guerrieri di una tempra di gran lunga superiore a quelli che produce Napoli. La precipitosa ritirata, senza neanche dar mostra di voler resistere ancora, deve aver ulteriormente accresciuto il loro scoraggiamento e la tendenza alla diserzione che già esisteva nei loro ranghi; e quando all’improvviso essi si trovarono circondati e bersagliati da quell’insurrezione che era stata preparata nell’incontro a Salemi, la loro compattezza fu completamente travolta; della brigata di Landi, rientrò a Palermo niente più che una calca disordinata e scoraggiata, in numero grandemente ridotto, in piccole bande successive.
Garibaldi entrò a Calatafimi il giorno in cui Landi ne uscì – il 16; il 17 marciò su Alcamo (10 miglia); il 18 su Partinico (10 miglia) e oltrepassato questo luogo puntò su Palermo. Il 19, acquazzoni torrenziali impedirono alle truppe di avanzare.
Nel frattempo, Garibaldi aveva appurato che i napoletani stavano scavando trincee intorno a Palermo, e rinforzando i vecchi, cadenti bastioni della città dalla parte che si affaccia su Partinico. Essi potevano contare ancora su 22.000 uomini, e così rimanevano di gran lunga superiori a tutte le forze che egli avrebbe potuto opporre loro. Ma erano scoraggiati; la loro disciplina allentata; molti di loro cominciavano a pensare di passare alle fila degli insorti; mentre era risaputo, sia tra i loro soldati che tra i nemici, che i loro generali erano degli imbecilli.
Le sole truppe degne di affidamento tra loro erano i due battaglioni stranieri. Stando così le cose, Garibaldi non avrebbe potuto rischiare un attacco frontale diretto sulla città, mentre i napoletani non potevano intraprendere niente di decisivo contro di lui, ammesso che le loro truppe ne fossero in grado, dato che essi devono sempre lasciare una forte guarnigione in città e non allontanarsi mai troppo da essa. Con un generale di stampo comune al posto di Garibaldi, questo stato di cose avrebbe condotto a una serie di azioni sconnesse e non risolutive, in cui egli avrebbe potuto addestrare una parte delle sue reclute nell’arte militare, ma in cui anche le truppe regie avrebbero potuto recuperare molto in fretta buona parte della perduta fiducia e disciplina, poiché non avrebbero potuto non riportare qualche successo in alcune di queste azioni.
Ma una guerra di questo tipo non sarebbe convenuta né ad un’insurrezione, né a un Garibaldi. Un’audace offensiva era l’unico sistema di tattica permesso in una rivoluzione; un successo straordinario, come quello della liberazione di Palermo, divenne una necessità non appena gli insorti furono giunti in vista della città.
Ma come attuare tutto ciò? Fu qui che Garibaldi dimostrò brillantemente di essere un generale adatto non solo alla semplice guerra partigiana, ma anche a operazioni più importanti.
Il 20 e i giorni successivi, Garibaldi attaccò gli avamposti napoletani e le posizioni nelle vicinanze di Monreale e Parco, sulla strada che porta a Palermo da Trapani e Corleone, facendo credere così al nemico che il suo attacco si sarebbe attuato soprattutto contro il lato sud-ovest della città, e che qui fosse concentrata la parte più consistente delle sue forze. Con un’abile combinazione di attacchi e finte ritirate, indusse il generale napoletano a far uscire un numero sempre più grande di truppe dalla città in questa direzione, finché il 24 circa 10.000 napoletani apparvero fuori dalla città, verso Parco.
Era quello che Garibaldi voleva. Egli li impegnò subito con una parte delle sue forze, indietreggiò lentamente davanti a loro in modo da spingerli sempre più lontano fuori dalla città, e quando li ebbe attirati a Piana(1), al di là della principale catena di colline che taglia la Sicilia e qui divide la Conca d’oro (così è chiamata la valle di Palermo) dalla valle di Corleone, egli gettò improvvisamente il grosso delle sue truppe sull’altra parte della stessa catena, nella valle di Misilmeri, che si apre sul mare, vicino a Palermo.
Il 25 egli fissò il quartier generale a Misilmeri, a otto miglia dalla capitale. Non siamo informati su ciò che fece dopo con i suoi 10.000 uomini disseminati lungo la sola strada dissestata che c’è sulle montagne, ma possiamo esser certi che egli li tenne ben occupati con alcune nuove indiscusse vittorie, in modo da impedire che ritornassero troppo presto a Palermo.
Avendo così ridotto i difensori della città quasi della metà, e trasferito la sua linea d’attacco dalla strada di Trapani alla strada di Catania, egli poteva procedere al grande attacco. Se l’insurrezione in città abbia preceduto l’assalto di Garibaldi, o se sia divampata al suo presentarsi alle porte della città, non risulta chiaro dai dispacci contraddittori; ma certo è che la mattina del 27, tutta Palermo insorse armata e Garibaldi si scagliò su Porta Termini, al lato sud-est della città, dove nessun napoletano lo attendeva. Il resto si sa: il graduale abbandono della città da parte delle truppe, ad eccezione delle batterie, della cittadella e del palazzo reale; i bombardamenti che seguirono, l’armistizio, la capitolazione. Mancano ancora particolari dettagliati di tutte queste azioni; ma i fatti principali sono sufficientemente definiti.
Nel frattempo, dobbiamo dire che le manovre con cui Garibaldi preparò l’attacco su Palermo lo definiscono subito un generale di prim’ordine. Finora noi lo conoscevamo solo come un capo di guerriglia molto abile e molto fortunato; anche nell’assedio di Roma il suo modo di difendere la città con continue sortite difficilmente gli poteva dare l’occasione di sollevarsi sopra quel livello. Ma qui lo troviamo su un buon terreno strategico, ed egli esce da questa prova da maestro provetto nella sua arte. Il modo di indurre il comandante napoletano nell’errore di mandare metà delle truppe fuori tiro, l’improvvisa marcia laterale e per riapparire davanti a Palermo, dalla parte dove era meno atteso, e l’energico attacco quando la guarnigione era indebolita, sono operazioni che portano il marchio del genio militare più di qualsiasi altro avvenimento verificatosi durante la guerra italiana del 1859.
L’insurrezione siciliana ha trovato un capo militare di prim’ordine; speriamo che il Garibaldi uomo politico, che dovrà presto comparire sulla scena, possa mantenere intatta la gloria del generale.
FRIEDRICH ENGELS
Apparso sul “New York-Daily Tribune”, n. 5979, 22 giugno 1860, editoriale. Scritto intorno al 7 giugno 1860.
In “Marx-Engels, Opere complete“, Editori Riuniti, vol. XVII, pagg. 392-396
(1) Piana dei Greci