Tutti conoscono gli Oscar. Che sia, o meno, il premio più importante del cinema, molti sanno che la prima edizione si tenne nel 1929. Altri ancora ricordano che Ben Hur, Titanic e The Lord of the Rings: The Return of the King (Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re) sono i film che hanno conquistato il maggior numero di statuette, ben undici. In molti lamentano, giustamente, il fatto che grandissimi come Charlie Chaplin, Buster Keaton, Orson Welles e Stanley Kubrick non vinsero mai il premio come miglior regista. Noi italiani poi non possiamo non ricordare con orgoglio gli Oscar come Miglior film straniero a: Sciuscià, Ladri di biciclette, La strada, Le notti di Cabiria, 8½, Ieri, oggi, domani, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Il giardino dei Finzi Contini, Amarcord, Nuovo cinema Paradiso, Mediterraneo, La vita è bella e La grande bellezza. O ancora che la prima donna candidata come Migliore regista, ad oggi colpevolmente solo cinque, fu la nostra Lina Wertmüller per il film Pasqualino Settebellezze. Ma se è piuttosto noto che il nome del premio deriva, presumibilmente, da un’esclamazione di Margaret Herrick, un’impiegata dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che vide nella statuetta una somiglianza con suo zio Oscar, è assai meno noto che per realizzare la statua un uomo posò come modello, era il futuro attore e regista messicano Emilio Fernández.
Il cineasta nacque a El Hondo, nello stato del Coahuila al confine con gli USA, il 26 marzo 1904 (alcune fonti riferiscono 1903) da Emilio Fernández Garza rude messicano e da Sara Romo Bustamante una nativa americana della tribù dei kikapù. Il carattere del giovane Emilio univa così l’aggressività del padre e la dolcezza indigena della madre. Gli anni della sua giovinezza sono avvolti da un alone di leggenda che lo stesso regista contribuì ad alimentare con interviste e racconti non sempre attendibili. Ciò che è certo fu che Emilio Fernández fu un ragazzo ribelle, inquieto, donnaiolo e attaccabrighe. All’età di dieci anni scoprì una relazione della madre con lo zio Fernando. Prese il fucile, gli sparò e lo uccise, per poi nascondersi due giorni in un pozzo. Fu accusato di omicidio e finì in riformatorio.
Da allora non volle più avere contatti con la madre. Di lei sappiamo che si trasferì negli Stati Uniti, contribuì a fondare la catena di supermercati 7-Eleven e morì nel 1978. Il padre, al contrario, divenne il punto di riferimento del giovane Emilio Fernández. L’uomo lasciò la moglie infedele e sposò la cognata Eloisa Reyes rimasta vedova per colpa del figlio. La donna, già madre del futuro cantante Fernando Fernández “El Crooner de México” (Monterrey, 9 novembre 1916 – Città del Messico, 24 novembre 1999), col focoso papà Emilio ebbe altri figli: Agustin, Rogelio, Jaime (Monterrey, 6 dicembre 1927 – Città del Messico, 15 aprile 2005) che divenne un affermato attore, Javier, Eloisa, Lilia, Teresa e Juanita.
Emilio Fernández, uscito dopo un breve periodo dal riformatorio, abbandonò gli studi e si unì, come già avevano fatto il padre e i fratelli, spesso su fronti diversi, alla rivoluzione messicana guidata da Pancho Villa ed Emiliano Zapata. Non aveva ancora compiuto undici anni!
Il padre morì in battaglia colpito da trentaquattro pallottole. Stessa sorte anche per i suoi punti di riferimento (Zapata morì a seguito di un’imboscata nel 1919, Villa fu assassinato nel 1923), Emilio Fernández, spaesato e solo, si ritrovò a combattere nel 1924 al fianco di Adolfo de la Huerta, che aveva lottato contro Pancho Villa, nella rivolta contro il presidente messicano Venustiano Carranza. Il tentativo di rivolta fallì. Fernández venne catturato e condannato a venti anni di reclusione. Riuscì roccambolescamente a fuggire oltre confine e arrivò a Los Angeles, per la precisione a Hollywood.
Nella “capitale del cinema” Fernández fece lavori di ogni genere fino a quando debuttò, come comparsa, nel film Torrent (Il torrente) di Monta Bell con Greta Garbo come protagonista. Proprio con l’attrice svedese, appena giunta negli Stati Uniti insieme al regista Mauritz Stiller, Fernández dichiarò di aver avuto, assai poco verosimilmente, una relazione.
Fece amicizia con Rodolfo Valentino, ma Hollywood era un po’ (tanto) razzista e gli stranieri poveri, provenienti principalmente dal Messico, trovavano di fronte a loro autentiche barriere. Emilio Fernández venne ribattezzato, in senso dispregiativo, “El Indio”, nome che l’uomo portò con grande orgoglio per tutta la vita. La sua prestanza fisica e i suoi tratti somatici, tuttavia, lo aiutarono. Il giovane recitò, non sempre accreditato, in Beau Geste (1926), El gaucho (1927), Drums of love (1927), The Loves of Carmen (Gli amori di Carmen, 1927), Ramona (1928). La vita delle comparse a Hollywood era difficile e i messicani facevano gruppo a parte sostenuti dai già affermati: Margo, attrice e ballerina messicana che ospitò più volte a casa sua Emilio, Ramón Novarro, protagonista del Ben-Hur (1925) di Frank Niblo e Dolores del Río (Resurrezione, Gli amori di Carmen, Ramona).
Alla fine degli anni venti Hollywood era in espansione. Nel 1927 venne fondata l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences che decise di dedicare un premio per promuovere e sostenere l’industria cinematografica: l’Academy Awards. Cedric Gibbons, grande sceneggiatore, tra i fondatori della stessa Academy, venne incaricato di realizzare una piccola statua. Gibbons frequentava all’epoca Dolores del Río, i due si sposarono nel 1930, che gli suggerì l’amico Emilio Fernández come modello. Benché recalcitrante all’idea di posare nudo, “El Indio” accettò. Lo sceneggiatore lo ritrasse come un cavaliere, in piedi su una pellicola, che tiene tra le mani un’enorme spada. Il risultato fu una statua alta poco più di 34 centimetri e con un peso di circa 8,5 chili. L’Academy, tuttavia, non volle dichiarare di aver fatto posare per il suo premio più prestigioso un immigrato e il tutto venne rimosso, cancellato. Ma quella statuetta, poi ribattezzata Oscar, ha tuttora le sembianze di Emilio Fernández.
Ma la passione di Emilio Fernández era destinata ad aumentare. Nel 1933 assistette ad una proiezione privata, e non autorizzata, di alcuni spezzoni di un film del “Senor Sergio Eisenstein”, si trattava ovviamente di Sergej Michajlovic Ėjzenštejn e il film era l’incompiuto del grande regista sovietico, ¡Que viva México! Il giovane attore ne rimase folgorato: “Non sapevo che il cinema potesse essere così bello e grandioso, e per di più ci vidi il mio Messico! E fu così che presi la mia decisione: avrei fatto anche io del cinema, e cinema messicano”.
Dopo una serie di altri film negli Stati Uniti, tutti di ambientazione messicana che alimentavano ogni stereotipo possibile, Emilio Fernández potè finalmente tornare nel suo Paese. Il nuovo Presidente del Messico, Lázaro Cárdenas del Río, aveva infatti concesso l’amnistia ai ribelli. Prima di dedicarsi interamente al cinema “El Indio” si guadagnò da vivere come pugile, sub, panettiere e aviatore.
Il cinema giunse in Messico alla fine del XIX secolo per opera di Salvador Toscano Barragan (Guadalajara, 22 marzo 1872 – Città del Messico, 14 aprile 1947), un ingegnere appassionato della “settima arte”. Realizzò decine di pellicole tra il 1898 e il 1917, che costituiscono un materiale documentaristico dal grande valore storico, specialmente per quanto concerne la Rivoluzione messicana. La successiva produzione nazionale fu limitata e di scarsa importanza. Da segnalare La luz (La luce, 1917) di Manuel de la Bandera, Santa (1918) di Luis G. Peredo e l’opera, in gran parte perduta, di Miguel Contreras Torres (Morelia, 28 settembre 1899 – Città del Messico, 5 giugno 1981). Negli anni trenta si affermò Fernando de Fuentes (Veracruz, 13 dicembre 1894 – Città del Messico, 4 luglio 1958) autore di film impegnati quali El compadre Mendoza (1934), ¡Vámonos con Pancho Villa (1935) sulle gesta della Rivoluzione messicana e Allá en el Rancho Grande (1936) presentato a Venezia.
Negli anni seguenti il Messico, complice la crisi del cinema spagnolo causata dalla Guerra civile, visse la più grande stagione del cinema nazionale, da molti paragonata al Neorealismo italiano, che anticipò di oltre settantanni i successi ottenuti da Alejandro González Iñárritu (11 settembre, Birdman, Revenant – Redivivo) e da Guillermo del Toro (La forma dell’acqua). Emilio Fernández ne fu l’indiscusso protagonista.
“El Indio” iniziò prima a recitare in alcuni film di scarso interesse, poi conquistò il ruolo da protagonista in Janitzio (1935), un dramma del regista Carlos Navarro. Quindi recitò nel già citato Allá en el Rancho Grande (1936) di de Fuentes e in Adiós Nicanor (1937) diretto da Rafael E. Portas. Ma quelle pellicole erano lontane dal Messico vero che Fernández voleva raccontare.
Nel 1941 debuttò dietro la macchina da presa con La isla de la pasión (1942) cui fece seguito Soy puro mexicano (1942), ma fu col successivo Flor Silvestre (Messico insanguinato, 1943) che Fernández si impose all’attenzione di pubblico e critica, dando al cinema messicano, complice la Seconda guerra mondiale che vedeva gli stati europei impegnati a combattere Nazismo e Fascismo, una ribalta internazionale. Con Flor Silvestre iniziarono per il regista importanti collaborazione che lo accompagnarono negli anni migliori del suo cinema: dal produttore Agustín J. Fink (Celaya, 7 luglio 1901 – Città del Messico, 1 maggio 1944) all’operatore Gabriel Figueroa (Città del Messico, 24 aprile 1907 – 27 aprile 1997), dallo sceneggiatore Mauricio Magdaleno (Tabasco, 13 maggio 1906 – Città del Messico, 30 giugno 1986) agli attori Pedro Armendáriz (Città del Messico, 9 maggio 1912 – Los Angeles, 18 giugno 1963) e l’amica Dolores del Río, pseudonimo di Dolores Martínez Asúnsolo y López Negrete (Durango, 3 agosto 1905 – Newport Beach, 11 aprile 1983) rientrata in Messico.
Flor Silvestre, che racconta la storia del tormentato amore tra Esperanza (Dolores del Río, al primo film messicano) e Josè Luis (Emilio Fernández) osteggiato dal padre del ragazzo prima dello scoppio della Rivoluzione messicana, gettò le basi di un cinema con una forte identità nazionale, aprendo la cosiddetta stagione dell’età dell’oro del cinema messicano.
Seguì nella filmografia del regista María Candelaria o Xochimilco (La vergine indiana, 1944). Due giovani fidanzati María Candelaria (Dolores del Río) e Lorenzo Rafael (Pedro Armendáriz) sono osteggiati dall’intera comunità di Xochimilco perché sono indio. Alla ragazza, inoltre, non viene perdonato di essere la figlia di una prostituta defunta. María è oggetto del desiderio del ricco mercante Don Damian (Miguel Inclán) che fa di tutto per osteggiare la ragazza sia uccidendole un maialino che accudiva nella speranza di poterlo vendere per comprare un vestito da sposa, sia impedendole di vendere fiori in città. L’amore è più forte, ma durante una gita in barca la ragazza viene punta da una zanzara e contrae la malaria. Lorenzo Rafael ruba così del chinino e un abito da sposa a Don Damian. I due giovani, complice un giovane pittore (Alberto Galán) cui la ragazza aveva rifiutato di posare per un dipinto, riescono finalmente a sposarsi. Guarita e sentendosi questa volta in obbligo verso il pittore, María Candelaria rifiuta di posare nuda, ma accetta di prestare il suo volto ad un dipinto. Così mentre Lorenzo viene arrestato per il furto, María viene accusata di immoralità dalle donne del villaggio e per questo lapidata. Morirà tra le braccia del suo amato in fuga.
“Vigoroso e straziante melodramma rurale” (Mereghetti) che contiene i temi cari al regista e allo sceneggiatore Magdaleno: l’eroina infelice e indifesa, gli amori contrastati, la comunità lacerata dai pregiudizi e oppressa dal potere, l’oppressione degli indio, i paesaggi assolati e solitari, magnificamente ripresi da Figueroa. María Candelaria segnò di fatto l’esordio del cinema messicano su scala internazionale e si aggiudicò, ex aequo con altri undici pellicole (tra queste Roma città aperta di Roberto Rossellini), la prima edizione del Festival di Cannes nel 1946.
Dopo la realizzazione de La vergine indiana la posizione del regista era invidiabile. Era ben visto dal Presidente Lázaro Cárdenas e dal suo successore Avila Camacho, e complice il fatto che il Messico era l’unico Paese del centro e sud America ad essere alleato degli USA nella Seconda guerra mondiale, pur non inviando truppe, i suoi film avevano una buona distribuzione anche negli Stati Uniti.
La pellicola successiva di Emilio Fernández fu Las abandonadas (Abbandonata, 1944), dramma che racconta le difficoltà della giovane Margarita (Dolores del Río) abbandonata dal marito Julio Cortàzar (Victor Junco) e cacciata di casa, costretta ad ogni lavoro, incluso la prostituta, per mantenere il figlio. L’attrice vinse la prima edizione del Premio Ariel, tuttora il più importante premio cinematografico messicano.
Seguirono Bugambilia (1944) tragica storia d’amore tra la figlia (Dolores del Río) di un ricco minatore e un umile allevatore di galli (Pedro Armendáriz); Pepita Jiménez (1945) in cui uno studente del seminario (Ricardo Montalban) è costretto a scegliere tra fede e l’attrazione per una avvenente ragazza (Rosita Díaz Gimeno) e La perla (1945) che racconta la storia di Quino (Pedro Armendáriz) un povero pescatore che trova una splendida perla, ma anziché portargli la ricchezza sperata, gli porta solo l’invidia e l’avidità dei suoi fratelli. La pellicola venne presentata a Venezia.
Ancor più interessante il successivo Enamorada (1946) che Emilio Fernández ambienta negli anni della Rivoluzione. Nel Messico del 1917, il generale rivoluzionario José Juan Reyes (Pedro Armendáriz), conquista la città di Cholula e si innamora della bella e orgogliosa Beatriz Peñafiel (María Félix) che, tuttavia, resiste alla sua corte. Ma quando il generale abbandona la città per evitare inutili spargimenti di sangue all’arrivo delle truppe governative, Beatriz scopre di amarlo.
Uno dei vertici del cinema di Fernández dove “il melodramma (qui intrecciato con originali elementi di commedia e una inusitata vena comica) trae la sua forza non tanto dallo scontro sentimentale quanto dalle componenti mitologiche che i due personaggi incarnano: José Juan Reyes e Beatriz Peñafiel diventano così ‘gli archetipi del nazionalismo culturale messicano’, lui insieme generoso e crudele, romantico e osceno, ribelle e capace di sacrificare la vita per un ideale, lei contemporaneamente obbediente e seduttrice, rassegnata e devota, amante appassionata e fedele schiava dei propri figli” (Mereghetti). Da segnalare inoltre che il film lanciò “Malagueña Salerosa”, una delle canzoni mariachi più note, utilizzata anche da Quentin Tarantino in Kill Bill.
Nel 1947 Fernández collaborò con John Ford per la realizzazione del film The fugitive (La croce di fuoco), con Henry Fonda nel ruolo del protagonista. Il regista messicano era all’apice della carriera. Aveva creato un nuovo linguaggio filmico, lontano dal naturalismo e dal realismo sociale, ma attento a tutto ciò che era indigeno e autoctono. Con lo stessa filosofia realizzò Rio Escondido (Il mostro di Rio Escondido, 1948) sulla giovane maestra Rosaura Salazar (María Félix) che si scontra con Don Reginaldo Sandoval (Carlos López Moctezuma), il padrone della città e Maclovia (Feudalismo messicano, 1948) che racconta un nuovo amore tormentato, questa volta ambientato in una piccola isola messicana.
Emilio Fernández ambientò, invece, per la prima volta in un grande città il successivo Salon Mexico (1949). Il “Salón Mexico” a Città del Messico è un locale notturno dove si prostituisce, tra le altre, Mercedes (Marga Lopez). Lo fa solo per pagare gli studi in collegio alla sorella minore Beatriz (Silvia Derbez), ignara del lavoro di Mercedes. Quando viene arrestata come complice del suo protettore Paco (Rodolfo Acosta), il poliziotto López (Miguel Inclán), che ha scoperto il motivo del suo lavoro, la aiuta a far si che il segreto venga mantenuto. Uscita dal carcere non vede l’ora di vedere la sorella coronare il suo sogno d’amore col figlio della direttrice del collegio, ma la vendetta di Paco non si fa attendere. Altro melodramma a tinte forti in cui Emilio Fernández abbandonò il tema degli indio per concentrarsi sulla contrapposizione tra diversi ambienti: il “Salón Mexico” e il collegio, la Città del Messico scintillante ed egoista e quella popolare e solidale. Interessante anche il profilo psicologico dei personaggi.
All’inizio degli anni cinquanta, complice il suo carattere bizzarro e turbolento (veniva chiamato “il regista con la pistola”), la sua carriera di regista iniziò un lento ed irreversibile declino. Realizzò in rapida successione: Pueblerina (Dimenticati da Dio, 1949), La malquerida (1949), Duelo en las montañas (1949), The torch (Del odio nació el amor, 1949) remake di Enamorada fatto negli USA con Paulette Godard nel ruolo che fu di María Félix, Víctimas del pecado (1950), Las Islas Marías (1950), Siempre tuya (1950), Un día de vida (1950), La bienamada (1951), Acapulco (1951), El mar y tú (1951), Cuando levanta la niebla (1952), Reportaje (1953), La rosa blanca (Momentos de la vida de Martí, 1953) una coproduzione Messico-Cuba.
Quindi un nuovo “ruggito” con La red (La rete o Rossana, 1953). Ferito dopo una rapina, José Luis (Armando Silvestre) lascia la propria donna (Rossana Podestà) alle cure del complice Antonio (Crox Alvarado) che non può non innamorarsi di lei. Quando José li raggiunge, la gelosia innesca la tragedia: Antonio uccide la donna e viene ucciso dalla polizia, mentre José prende in braccio il corpo della donna ed entra in mare per annegarsi. Il film più sensuale di Emilio Fernández che si concentrò sulla forza delle immagini, curate da Alex Philip, sui corpi scolpiti dal bianco e nero, sui primi piani ravvicinati, sui contrasti. Sexy come non mai la Podestà che grazie al film ebbe una breve carriera a Hollywood.
Seguirono i trascurabili: La rebelión de los colgados (La ribellione degli impiccati, 1954), storia della rivolta di un gruppo di lavoratori, Nosotros dos (1954), La Tierra del Fuego se apaga (1955), Una cita de amor (1956) e El impostor (1956) che fu l’ultimo film del regista con Pedro Armendáriz protagonista. L’attore sempre nel 1956 aveva recitato nel film The Conqueror (Il conquistatore), film biografico sulla figura di condottiero mongolo Gengis Khan, diretto da Dick Powell. Gli esterni della pellicola vennero girati nel deserto dello Utah, vicino al luogo dove il Governo americano stava effettuando dei test nucleari. 91 delle 220 persone coinvolte nella produzione del film si ammalarono in seguito di cancro e 46 di esse morirono a causa della malattia: tra queste, John Wayne (cancro dello stomaco e dei polmoni), Susan Hayward (cancro al cervello), Agnes Moorehead (cancro all’utero), John Hoyt (cancro ai polmoni) e il regista del film Dick Powell (cancro alle ghiandole linfatiche). Pedro Armendáriz iniziò a soffrire di dolori ad un fianco e gli venne diagnosticato il cancro in quell’area. Conscio della sua triste sorte completò il suo ultimo film From Russia with Love (007, dalla Russia con amore, 1963) e si suicidò con un colpo di pistola.
Meno drammaticamente, ma anche la carriera di Emilio Fernández stava per finire. Rinchiuso in un’enorme villa a Coyoacán, quartiere di Città del Messico, riuscì ancora a dirigere Pueblito (1961), Paloma herida (1962), Un dorado de Pancho Villa (1966), El crepúsculo de un dios (1968), La Choca (1973) col quale si aggiudicò il Premio Arel per la Migliore regia, Zona roja (1975) e México Norte (1977). Nel 1977 uccise un giovane contadino durante una lite e finì nuovamente in carcere. Ne uscì sei mesi dopo e realizzò il suo ultimo film, Erótica (1978).
Intensa fu anche la carriera di attore di Fernández. Dopo agli esordi negli USA e in Messico, “El Indio”, progressivamente abbandonata la regia, recitò in The Magnificent Seven (I magnifici sette, 1960) di John Sturges e nel seguito Return of the Seven (Il ritorno dei magnifici sette, 1966), lavorò con John Huston (La notte dell’iguana, Sotto il vulcano), ma i ruoli più importanti li ottenne diretto, in tre pellicole, dall’amico da Sam Peckinpah: The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio, 1969), Pat Garrett and Billy the Kid (Pat Garrett e Billy the Kid, 1973) e Bring Me the Head of Alfredo Garcia (Voglio la testa di Garcia, 1974). La sua ultima apparizione fu in The Treasure of the Amazon (Il tesoro dell’Amazzonia, 1985) per la regia di René Cardona Jr.
Anche la vita sentimentale del regista fu turbolenta. La sua prima moglie fu Gladys Fernández, attrice e ballerina cubana di 16 anni. I si sposarono a Città del Messico nel 1942 ed ebbero una figlia, la scrittrice Adela Fernández (Città del Messico, 6 dicembre 1942 – Città del Messico, 18 agosto 2012). La giovane cubana, tuttavia, lo lasciò presto, complice le troppe attenzioni che Emilio dedicava all’attrice Dolores del Río. Un amore non corrisposto come quelli per Greta Garbo e per Olivia de Havilland. Emilio Fernández nel 1947 conobbe ad una festa l’attrice Columba Domínguez (Guaymas, 4 marzo 1929 – Città del Messico, 13 agosto 2014), i due si innamorarono e rimasero insieme dal 1947 al 1952. Benché la donna non volesse avere figli, rimase incinta. Portò a termine in segreto la gravidanza, ma ruppe col compagno regista. Nacque Jacaranda Fernández che recitò anche in alcuni film del padre, per poi morire tragicamente, nel 1978, cadendo dal quarto piano di un edificio. Emilio Fernández divene padre per la terza volta negli anni del suo terzo matrimonio con Gloria De Valois Cabiedes. I due si sposarono nel 1956 e dalla loro unione nacque Xochitl Fernández De Valois. Pare avesse anche un figlio, anch’egli chiamato Emilio, da una relazione extraconiugale.
All’inizio del 1986, Emilio Fernández cadde nella sua casa di Acapulco e si ruppe il femore. Secondo sua figlia Adela, nell’ospedale in cui venne curato, subì una trasfusione di sangue infetto da malaria. Il più grande regista messicano di tutti i tempi, si spense il 6 agosto dello stesso anno nella sua stanza della sua casa a Coyoacán. Proprio sull’eredità dell’imponente villa del regista, si scatenò alla sua morte una guerra tra la primogenita Adela e Columba Domínguez che accusò la figliastra di essere stata adottata e di non essere, pertanto, l’erede naturale di Emilio Fernández. Nonostante questo la casa venne gestita da Adela fino alla sua morte avvenuta nel 2012. Ancora oggi la casa di Emilio Fernández è utilizzata per varie attività culturali, nonché come set per numerosi film messicani e stranieri.
Regista amato da Martin Scorsese (cui si deve il restauro di Enamorada) e da Quentin Tarantino, Emilio Fernández seppe unire tradizioni e folklore, opere letterarie e canti popolari, pittura e natura, lotta contro il potere e difesa degli indios. Anticipò il Cinéma Nôvo di Glauber Rocha e raccontò il Messico come nessuno altro prima o dopo, ma per il regista la stagione più bella e felice della sua vita fu, nonostante tragedie familiari, un omicidio e il riformatorio, l’infanzia che, secondo lo stesso Emilio Fernández, gli aveva dato tutto ciò che un bambino poteva desiderare “una pistola, un cavallo e una rivoluzione”.
redazionale
Bibliografia
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: immagine in evidenza da it.wikimedia.org e Screenshot del film Orizzonti di gloria, foto 1, 3, 4 da pinterest.com, foto 2 da ru.wikimedia.org, foto 5 da it.wikimedia.org, foto 6, 7 Screenshot del film Day of th Fight, foto 8 Screenshot del film Fliyng Padre,