Lo sforzo bipartisan ha prodotto il risultato. Il neocandidato premier di Forza Italia Antonio Tajani da Strasburgo e il ministro riserva della repubblica Carlo Calenda sono riusciti a far tornare sui propri passi Whirlpool. L’Embraco di Riva di Chieri non licenzierà subito i suoi 497 dipendenti. Ha garantito di bloccare le lettere e mantenerli al lavoro fino alla fine di quest’anno.
Un risultato accolto però con scetticismo dai lavoratori che fuori dai cancelli della fabbrica torinese al cambio turno commentano: «Hanno solo allungato il brodo». Anche Daniele Simoni, operaio da 25 anni a costruire compressori per frigoriferi a Riva di Chieri che si è incatenato ai cancelli il 20 febbraio e poi aveva incitato in tv il ministro Calenda, non è per nulla soddisfatto: «Noi abbiamo lottato per il ritiro dei licenziamenti, non per il congelamento, che è ben diverso», dice a Repubbblica Tv.
L’accordo al Mise è arrivato mentre a Torino i sindacati metalmeccanici tenevano l’assemblea unitaria dei delegati torinesi di Fim, Fiom e Uilm in vista dello sciopero generale – confermato – di martedì 13 marzo con corteo e comizio finale a piazza Castello. Già lì le reazioni sindacali facevano da contraltare alle roboanti dichiarazioni provenienti da Roma, con le felicitazioni di Gentiloni e Renzi al «combattente» Calenda. «Siamo soddisfatti – aveva detto a caldo il ministro – ora l’obiettivo è la reindustrializzazione. Abbiamo messo in campo Invitalia con il nuovo Fondo contro le delocalizzazioni deliberato (tre giorni fa, ndr) dal Cipe. In ogni caso se la reindustrializzazione non avvenisse entro il periodo in cui i licenziamenti sono sospesi, c’è un paracadute in più che fino a ieri non c’era per gestire questi casi di delocalizzazione. Intanto va avanti l’attività di pressione a livello europeo perché il problema non è solo Embraco. Vogliamo vederci chiaro su l’utilizzo dei fondi strutturali», ha concluso Calenda, prima di dedicarsi ad altri annunci: un decreto sul biometano e incentivi ad imprese gasivore; il riavvio degli impianti dell’Eurallumina di Portovesme e la salvaguardia occupazionale per i lavoratori della Magona di Piombino.
In realtà più che di un «accordo» si tratta di un impegno unilaterale dell’azienda. Tanto che subito perfino il segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo si affretta a precisare che «i sindacati non hanno firmato alcun accordo sui licenziamenti».
Come stanno realmente le cose lo spiega il segretario della Fiom di Torino Federico Bellono. «Non c’è nessun passo indietro di Embraco e Whirlpool. Diversamente da quanto auspicato da Calenda e dai politici, i licenziamenti non sono ritirati. L’azienda non si è mai mossa da questa posizione. Semplicemente oggi ha deciso di garantire le retribuzioni piene fino a dicembre, anche se non è chiaro il meccanismo. D’altronde che un po’ di produzione rimanesse era sempre stato chiaro: delocalizzano in Slovacchia e in India ma i macchinari sono quelli di Riva di Chieri e per spostarli serve tempo».
Nel frattempo si parla di un incentivo all’uscita e alcuni lavoratori sperano che se si raggiungesse una cifra significativa di volontari («Se si arriva a 150…») forse l’azienda potrebbe convincersi a rimanere». «In realtà – continua Bellono – la decisione di andarsene è presa e Embraco non ha ritirato la procedura proprio per non avere vincoli. Se avesse chiesto la cassa integrazione per ristrutturazione (visto che quella per cessazione non c’è più), oltre al costo imposto dal Jobs act, avrebbe dovuto presentare un piano di reindustrializzazione fissando una cifra di persone che sarebbero rimaste al lavoro in futuro. E se ciò non fosse successo, avrebbe dovuto pagare tutta la cassa integrazione».
La vera e unica novità dunque è rappresentata dalla «presa in carico di Invitalia in caso di mancata reindustrializzazione». «Se fosse così sarebbe veramente positivo perché ci sarebbe continuità nel rapporto di lavoro – osserva Bellono – ma la certezza, specie davanti ad un probabile cambio di governo, non l’abbiamo». I casi di Termini Imerese, Irisbus e Bredamenarini sono lì a testimoniare il contrario.
Alla fine l’unica cosa assolutamente certa che dice Calenda è questa: «Abbiamo messo in sicurezza l’accordo prima delle elezioni». Il problema è che da lunedì potrebbe non essere lui a gestire una reindustrializzazione tutt’altro che semplice.
MASSIMO FRANCHI
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