Un po tutta la storia del pensiero occidentale si muove sul crinale ambivalente della constatazione della realtà oggettiva da un lato e dell’osservazione soggettiva, quindi interpretativa, tanto della materialità da cui si trae, spesso e volentieri, una serie di costrutti mentali che, alla fine, danno vita a precisi filoni culturali, ideologici, politici, religiosi.
La logica dei matematici, quella degli aristotelici, quella del metodo cartesiano, fanno tutte parte di un grande sforzo, per l’appunto, di interpretazione dei rapporti tra individui e individui, persone e cose, realtà materiali inanimate con altre realtà materiali altrettanto inanimate.
Quando, ad esempio, Aristotele tratta degli enunciati apofantici (da ἀποϕαντικός (apofantikòs), ossia “dichiarare“, “asserire“) che dovrebbero possedere la qualità della semplice enunciazione di verità incontrastabili, quindi letteralmente oggettive, le ammette in uno schema non certo semplice di logica in cui il processo dialettico si innesta senza alcuna contraddizione.
Il rapporto tra oggettività e soggettività qui è dimostrato sempre come conseguenza di una ricerca dell’armonia che lega il tutto in cui viviamo e noi stessi con questa universalità di contenuti e di espressioni tanto concrete quanto più immaterialmente affidate alla concettualità. Facciamo qualche esempio. Questa universalità appena citata è al centro di un rapporto dialettico tra affermazione e negazione.
Se diciamo: «Ogni pianta ha le foglie», per Aristotele stiamo appunto “asserendo“, stiamo dicendo che quella caratteristica delle piante è universale e che quindi è logicamente tale dentro uno schema che, tuttavia, comprende anche delle parzialità.
Dall’osservazione quotidiana del nostro modo di vivere, quindi di declinare la nostra esistenza nell’atto continuo di creazione della realtà in cui ci troviamo a muoverci e – qualche volta – a sentirci imprigionati, se ne ricava che non possiamo enunciare solo concetti universali, ma che le differenze sono parte di una dialettica che, nel confronto tra oggettivo e soggettivo, parziale e universale, locale e globale, finisce col produrre una sintesi che è sempre l’elemento nuovo in cui un po’ tutto trova nuova vita, nuova esperienza, nuova ricchezza.
Il passare dei secoli, con tutto il suo portato di sviluppo del pensiero e delle pratiche a cui ha condotto la rielaborazione degli enunciati precedenti da parte dei filosofi che si sono succeduti tanto in Europa quanto negli altri continenti, ha avuto come conseguenza non la fine della filosofia, la sua presunta morte, che qualcuno ha pensato di poter dichiarare in questi nostri tempi considerati ultramoderni.
Semmai, riprendendo in questo senso un concetto hegeliano, possiamo essere d’accordo quando si afferma che la filosofia «è il proprio tempo appreso nel pensiero» ma dobbiamo anche affiancare a questo enunciato la percezione sensibile, la tangibilità prodotta e indotta dai sensi e, per questo, in sintesi – proprio come nel processo dialettico di Hegel stesso – se ne ricava un nuovo inizio, costantemente.
Un principio legato alla valutazione positiva del confronto, così come in Aristotele. Senza interazione tra le affermazioni e le negazioni, che si riconoscono e si disconoscono a seconda appunto dell’incontro che facciamo loro fare, non vi sarebbe nemmeno criticità del pensiero, ma solo un piatto, inerte, sterile piano osservativo, privo di stimoli, privo di qualunque spinta ulteriore a garantire l’evoluzione complessiva del nostro essere pensanti.
Caso mai ancora non si fosse capito, questo è un elogio comunque critico della dialettica in quanto naturale propensione animale (quindi anche – e soprattutto – umana) a ricercare senza soluzione di continuità i motivi per migliorare le proprie condizioni esistenziali in un contesto altamente incomprensibile come quello della vita su questo pianeta.
Noi esseri umani, più che coscienti, quindi autocoscienti, critici nei nostri e negli altrui confronti, siamo in grado di spingerci verso l’inarrivabile orizzonte della comprensione di ciò che ci circonda e di andare ben oltre la semplice contemplazione dell’esistente. Questo – come diceva Stephen Hawking – fa di noi degli esseri molto speciali e, tuttavia, relegati su questo sassolino in un Universo che ci ostiniamo a voler definire.
Anche là, ai confini che non sono poi confini del nostro visibile, percettibile e raggiungibile con le lenti dei telescopi e delle sonde che solitarie viaggiano nello spazio, la dialettica degli elementi non smette di essere tale. Perché la dialettica è parte dell’esistenza attiva e passiva della materia tutta.
Anche lo scontro tra due atomi è dialettica; anche quello tra due asteroidi lo è. Cambia il grado, se vogliamo, di questo confronto-scontro, ma non c’è praticamente nulla di veramente inerte in ciò che esiste, in ciò che noi percepiamo come “esistente“. I sensi ci ingannano? Indubbiamente. Non sempre quello che si sembra oggettivo, in sostanza può essere tale.
Soprattutto i sensi ci traggono in fallo se affidiamo a loro un tipo di conoscenza “universale” e non ammettiamo altro se non il nostro rapporto strettamente materiale con tutto ciò che ci è, per lo meno, nel ristretto campo limitrofo che muta di continuo. Basta che noi ci spostiamo di pochi centimetri e abbiamo immediatamente a che fare con una realtà diversa rispetto a quella di pochi istanti prima.
Quello che noi consideriamo costante è relativo, quello che noi consideriamo a volte imperturbabile è invece marcescibile, consumabile dalle forze della natura, dal tempo; insomma, dalla realtà che lo circonda e che non è una semplice accoglitrice tanto dei corpi quanto delle menti.
Quello che era considerato il “ragionamento perfetto“, quindi il sillogismo aristotelico, ha permesso di dimostrare, entro i limiti del paradosso cercato e voluto, come dal pensiero scientificamente inteso, quindi collimante con la logicità che rispetta i canoni dell’equilibrio razionale entro i termini dell’oggettività dei fatti, che qualunque iperbole è possibile se si cambiano le premesse.
Per questo dovremmo sempre tenere bene a mente che non esiste una regola universale a cui affidare la certezza assoluta dei nostri pensieri. Un po’ socraticamente (e paradossalmente) possiamo affermare che il sapere di non sapere è esso stesso, nella sua assenza di presunzione dichiaratamente esplicita, un enunciato soggetto anche esso al rapporto dialettico nel pensiero e fuori dal pensiero.
Perché il confronto è e rimane inevitabile: non si sfugge all’istintivo procedimento mentale che impronta tutto al ragionamento. E, per questo, sono rari i momenti in cui il “depensamento” può separarci per un attimo dall’incessante produzione di idee e di stravaganze, di paure e di gioie che, oltre che dalla percezione sensibile, ci provengono dalla mulinellante e vorticosa generazione dei pensieri.
Se Aristotele procede conoscitivamente accostando la logica alla “filosofia prima” (ossia alla metafisica), concedendo a quest’ultima un ruolo quasi secondario, riconoscendone la parzialità ma sapendo bene che è quasi istintiva l’indagine che l’essere umano fa rispetto a ciò che gli sta intorno, alcuni millenni dopo, Hegel nella partizione filosofica che esprime pone una triade interpretativa che affianca logica, natura e spirito.
Mentre la logica rientra pur sempre nel campo dell'”idea pura“, dell’essenza concettuale al principio di sé stessa, quasi incontaminata rispetto a dove risiede (in noi stessi e nelle cose del mondo, visto che tutto è razionale e che la razionalità è esistenza e viceversa), la natura viene considerata molto più infimamente rispetto alla metafisica aristotelica: c’è una specie di condanna dell’inerzia della materia, di una forma priva di sviluppo.
La scienza, di contro, ci ha permesso invece di estrinsecare il rapporto dialettico ovunque, anche nel più piccolo atomo invisibile ad occhio nudo. I sensi ci ingannano e ingannano, di conseguenza, il nostro metodo di acquisizione della conoscenza stessa attraverso il rapporto tra noi e il fuori da noi.
Nemmeno a dirlo, essendo Hegel un idealista, è lo spirito il vero centro del rapporto di questa partizione della filosofia. L’inerzia della natura è, infatti, associata ad una staticità che, di conseguenza, nega ante litteram l’evoluzionismo, il progresso della specie. Qui la dialettica sembra infrangersi contro un muro di pregiudizi che, forse, sarebbero venuti meno se Hegel avesse potuto guardare dentro un microscopio, oppure attraverso le poderose lenti dei nostri telescopi riflettori.
Tuttavia, anche quando il processo dialettico pare minimizzarsi dentro la filosofia dello spirito, ecco che proprio nella scoperta delle contraddizioni della coscienza, attraverso la “fenomenologia” della stessa, riemerge proprio la dialettica stessa: perché essere è conoscere e conoscere vuol dire anzitutto rapportarsi con ciò che ci abita internamente ma, soprattutto, con ciò cui siamo costretti a relazionarci fuori da noi medesimi.
Proprio la coscienza, per essere tale, ha bisogno del confronto. Del confronto con altre coscienze e, quindi, il simile si riconosce e si disconosce anche dal suo simile, perché da esso trae la conclusione riflessa di ciò che esso stesso è, ma dal raffronto con quello che gli è diverso tra ancora di più la nitidezza dei suoi tratti particolari: somatici, fisici, morali, etici, sociali, civili.
Sarà proprio questo racconto della coscienza ad essere un punto di svolta per le future teorizzazioni della consapevolezza di classe: la sinistra hegeliana dichiarerà la filosofia come base della conoscenza, molto più alta di quella religiosa che verrà ridotta ad interpretazione miticheggiante del mondo. Se vogliamo, siamo alle soglie di un principio ateistico che prende il via da una critica del panteismo.
Tesi, antitesi e sintesi, pertanto, sono, anche nella traduzione più pratica dell’oggettivismo spirituale hegeliano, inseparabili dal continuo avvicendarsi della realtà attraverso la realtà stessa che, per questo, non “esiste“, ma “diviene” in un rapporto tra finito ed infinito in cui il primo si risolve praticamente nel secondo e trova in questo modo la sua logicità, il suo essere parte di un tutto.
Del resto, Hegel, non meno di Aristotele, comprende nella logica ogni fatto naturale e, quindi, non permette a nulla di stare al di fuori di una completezza armonica che regola naturalmente ciò che diviene, ciò che è in continua trasformazione.
La dialettica, pertanto, è la vera rivoluzione costante del mondo, dell’Universo: è vita e morte al tempo stesso. E’ una antitesi produttrice, una compenetrazione di differenze che divengono uguaglianze, è il tutto si crea e il nulla che si distrugge lavoisieriano. E’ un po’ meccanicismo democriteo e un po’ scorrevolezza continua eraclitea.
E’ la dimostrazione che la filosofia è essa stessa uno straordinario continuum dialettico a cui nessuno può mettere la parola fine e che non è finalizzata alla conoscenza assoluta, alla certificazione della verità indiscutibile, ma che proprio nella discutibilità ritrova la sua dialettica per eccellenza, la sua primordiale essenza per antonomasia.
MARCO SFERINI
10 dicembre 2023
foto: elaborazione propria