Il 29 novembre del 1947 le Nazioni Unite, con 33 voti favorevoli, 13 contrari e 10 astenuti, adottarono la “risoluzione 181”. Le terre storiche della Palestina, dopo anni di controllo britannico, vennero spartite con gli ebrei, sempre più numerosi in quella porzione di medio oriente a seguito delle persecuzioni naziste. Nacque così una strana creatura: lo stato ebraico andò ad occupare la superficie maggiore il 56.45%, con 498mila ebrei e 497mila palestinesi; lo Stato palestinese ebbe, invece, il 42.88% delle terre abitate da 725mila arabi e 100mila ebrei; il restante 0.65% divenne la zona internazionale di Gerusalemme abitata da 105mila palestinesi e 104mila ebrei. Quella risoluzione non fu mai attuata e ai palestinesi, benché fossero in maggioranza, venne sottratta terra. Furono cancellati interi villaggi. Il 14 maggio del 1948, quando gli ultimi soldati britannici lasciarono la Palestina, nacque lo stato di Israele e con esso uno scontro che dura fino ai giorni nostri.
Quegli eventi posero fine allora nascente cinematografia palestinese che, dopo decenni di silenzio, sta negli ultimi anni riuscendo a svilupparsi con una propria dimensione e autorevolezza. Tra film girati a Gaza o in Cisgiordania, coproduzioni internazionali (da ricordare Io sto con la sposa, realizzato da Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry) e registi di talento, il cinema palestinese si sta ritagliato uno spazio importante. Oggi a guidare quella riscossa cinematografica, e non solo, è il cineasta Elia Suleiman, premiato e acclamato anche recentemente al Festival di Cannes.
La settima arte arrivò tardi in Palestina. I primi a realizzare un film furono i fratelli Ibrahim (1904-1953) e Badr Lama (1907-1947). Nati in Cile da genitori palestinesi, decisero di trasferirsi nella terra di origine. Tuttavia, durante il viaggio, rimasero affascinati da Alessandria d’Egitto e lì si fermarono. Girarono Qubla fi al-sahra (Un bacio nel deserto), presentato al cinema Cosmograf di Alessandria il 5 maggio 1927, uno dei primi film arabi della storia che, a conti fatti, di palestinese ha veramente poco.
Decisamente più palestinese l’opera di Ibrahim Hasan Sarhan che tra il 1935 e i primi anni Quaranta, realizzò numerosi cortometraggi. Nel primo riprese la visita del Re dell’Higiaz (oggi parte dell’Arabia Saudita) in Palestina e, a seguito di altre fortunate pellicole, fondò la prima casa di produzione palestinese. Allo scoppio del conflitto del 1948, Sarhan fu costretto a sospendere ogni attività e a rifugiarsi in Giordania dove concluse la propria carriera prendendo parte alla realizzazione del film Sira’un fi Jarash (Lotta a Jarash, 1957). Il conflitto politico, militare e sociale che si sviluppò dopo la nascita dello stato di Israele cancellò, come detto, il cinema e con esso ogni testimonianza filmica della Palestina dell’epoca.
Solo vent’anni dopo, nel gennaio del 1968, dopo la sconfitta araba della Guerra dei sei giorni, venne costituita ad Amman in Giordania, una “Unità di cinema palestinese” sotto l’egida di al-Fatah e la guida dei cineasti Hani Jawhariyya (morto nel 1976 in Libano mentre filmava uno scontro armato), Mustafa Abu Ali e Sulafa Jadallah. Cinema di semplice propaganda che aveva come obiettivo quello di testimoniare la lotta contro Israele. Documentari voluti dall’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) cui si affiancarono opere di importanti registi arabi che, anche attraverso pellicole di finzione, portarono alla ribalta internazionale la questione palestinese. Da segnalare al-Mah du un (Gli ingannati, 1972), produzione siriana del regista egiziano Tawfik Saleh tratto da un’opera di Gassan Kanafani a Qafr Qasim (1974), produzione siro-libanese del regista libanese Bohrane Alaouié, che rievoca il massacro di un villaggio palestinese a opera dei soldati israeliani nel 1956.
Ma fu solo negli anni 80 che si sviluppò quello che venne definito il “Nuovo cinema palestinese”. Un cinema sovente finanziato in Europa e realizzato da giovani cineasti palestinesi in esilio, quasi sempre in condizioni di clandestinità, tra i territori occupati, i campi profughi e le città israeliane con una forte presenza araba, come Nazareth e Haifa. Il padre di questo movimento fu Michel Khleifi.
Nato a Nazareth il 3 novembre 1950, appassionato di teatro e cinema emigrò appena ventenne a Bruxelles dove, nel 1977, si diplomò presso l’Institut National Supérieur des Arts du Spectacle et Techniques de Diffusion (INSAS). Dopo aver lavorato per la televisione belga, Khleifi tornò in Palestina dove realizzò al-akira al-hiba (La memoria fertile, 1980), lungo documentario che intreccia la storia di due donne, una vedova cinquantenne costretta a fare l’operaia per mantenere i figli e una giovane scrittrice divorziata, che incarnano il conflitto tra tradizione e modernità all’interno della cultura palestinese. Una riflessione, non scontata, sulla difficile condizione della donna nel mondo arabo. Il film fu presentato alle Giornate cinematografiche di Cartagine e si aggiudicò il premio come miglior film d’esordio.
Già col suo primo lavoro il regista, contaminando documentario e finzione (elemento che caratterizzerà gran parte del cinema palestinese) rivelò subito una inedita modernità, capace di trattare, anche con spregiudicatezza, problemi sociali della vita quotidiana.
Elemento che risultò ancor più forte nel successivo Urs al-Galil (Nozze in Galilea, 1987), prima pellicola a soggetto nella storia del cinema palestinese, nonché prima pellicola ad essere esportata all’estero. Nel raccontare la preparazione di un matrimonio in un piccolo villaggio dei territori occupati dove vige la legge marziale e il coprifuoco, Khleifi si soffermò sui rapporti di dominio e sottomissione tra Israele e Palestina, ma anche su quelli, non meno oppressivi, tra uomini e donne, adulti e ragazzi, marito e moglie. Il tutto venato da un intento pacifista. Per questo Nozze in Galilea fu accusato di sionismo e a lungo criticato nel mondo arabo. Il film, che ottenne riconoscimenti a livello internazionale, e consacrò Khleifi sulla scena internazionale.
Successivamente Khleifi rievocò la prima Intifada, scoppiata nel dicembre del 1987, nel film Našid al-agar (Cantico delle pietre, 1990), realizzò in Europa L’ordre du jour (1993) sulla tematica dell’esilio e, tornato in Palestina, girò Conte des trois diamants (La storia dei tre gioielli, 1995) primo film ad essere realizzato nella striscia di Gaza. La storia dell’amore tra due adolescenti è il pretesto per raccontare la violenza della guerra e le contraddizioni in seno alla società palestinese. Differenze culturali alla base anche del documentario Forbidden marriages in the Holy Land (1995) che, tra Israele e Palestina, segue gli amori di otto coppie di etnie e religioni diverse.
Al centro dell’opera di Khleifi lo scontro tra ebrei e arabi, sviluppatosi con maggiore forza dopo la non applicazione della risoluzione dell’ONU del 1947. Nel 2002, partendo proprio dalla “risoluzione 181”, il regista palestinese insieme al collega israeliano Eyal Sivan (Haifa, 9 settembre 1964) percorse, da sud a nord, quella linea immaginaria di divisione tra Palestina e Israele raccogliendo testimonianze tra gente comune, ex combattenti, imprenditori di guerra, soldati ai posti di blocco, immigrati ebrei che rimpiangono di aver lasciato i Paesi d’origine negli anni Sessanta e pochi arabi esasperati, inermi e isolati. Quel viaggio, montato tra il 2003 e il 2004, divenne il bellissimo Route 181, fragments d’un voyage en Palestine-Israël (Route 181, frammenti di un viaggio in Palestina-Israele).
Il film, lungo oltre quattro ore e diviso in tre parti (Sud, Centro, Nord), mostra il razzismo colonialista di Israele che ha espulso i palestinesi dalle proprie terre (drammatico l’elenco dei villaggi cancellati dalla carta geografica), ha compiuto stragi orrende, fa profitti con la guerra (emblematico il caso dei produttori del filo spinato che nessun’altra nazione al mondo utilizza per i confini, perché letale…) e marginalizza gli ebrei meno “puri”. Proprio per questa impostazione Route 181 venne prima censurato, si sbloccò solo grazie all’intervento di numerosi registi (prima tra questi Jean-Luc Godard), poi accusato di antisionismo, ma al di là delle prevedibili polemiche è un film crudo, da vedere perché quei volti, quelle testimonianze, quei luoghi devastati raccontano una storia che non può essere ignorata.
Dopo Route 181, Khleifi ha realizzato solo un altro film, l’autobiografico Al’zendiq (Zindeeq, 2009) in cui un regista, che ha vissuto per decenni all’estero, torna in Palestina. La pellicola si aggiudicò il Gran premio Muhr al Festival internazionale del cinema di Dubai e ottenne un grande successo nei paesi arabi.
Oggi Khleifi insegna regia presso la scuola INSAS di Bruxelles ed è supervisore, a Ramallah e a Beirut, del progetto didattico audiovisivo della A.M. Qattan Foundation che opera per lo sviluppo della cultura e dell’istruzione in Palestina e nel mondo arabo.
Notevole anche il lavoro di un altro regista palestinese, Rashid Masharawi. Nato a Gaza nel 1962 e cresciuto con la numerosa famiglia nel campo-profughi di Al-Shati, il futuro cineasta iniziò a lavorare all’età di 12 anni e divenne in rapida successione manovale, imbianchino, cameriere, lavapiatti, decoratore d’interni. Sempre tra la Palestina e Israele. Forte della sua esperienza nel 1980 si unì ad squadra di scenografi che lavorava in set cinematografici. Fu la svolta. L’anno successivo diresse i primi video amatoriali, il primo si intitolava Partners, e si trasferì a Tel Aviv per studiare cinema. Nel 1986 iniziò a produrre film e divenne l’unico regista attivo a Gaza tra gli anni 80 e 90. Nel 1989 diresse Shelter, film sulle difficoltà di un lavoratore palestinese in Israele. Nonostante fosse stato girato illegalmente a Tel Aviv, il film ottenne il premio come Miglior cortometraggio al Jerusalem Film Festival.
Nel 1993 Masharawi si trasferì per tre anni nei Paesi Bassi, dove proseguì la sua formazione e fondò, insieme al regista Hany Abu-Assad (Nazareth, 11 ottobre 1961) una compagnia di produzione cinematografica, la Aylul Films. Furono anni importanti. Realizzò i suoi primi lungometraggi: Curfew (1994) che racconta con intenso realismo l’interminabile giornata di una famiglia di Gaza segregata in casa per un coprifuoco di ventiquattro ore ordinato dall’esercito israeliano e Haifa (1996) che mette in scena le fragili speranze del popolo palestinese nei confronti del processo di pace attraverso una galleria di personaggi simbolici che incarnano la memoria e la coscienza del popolo. Furono i primi film palestinesi ad essere premiati a Cannes, Haifa il primo ad gareggiare ufficialmente.
Il regista nel 1996 fece ritorno in Palestina. A Ramallah fondò il Cinematic Production Center (CPC) allo scopo di dare la possibilità a giovani cineasti palestinesi di lavorare nella produzione audiovisiva. Nel 1997 realizzò Rabab, prima opera interamente prodotta con capitali e tecnici palestinesi, cui fecero seguito altri importanti film per la CPC da A Ticket to Jerusalem (2002) a Eid milad Laila (Il compleanno di Laila, 2008), da Al ajniha assaghira (Little Wings, 2009) a Palestine Stereo (2013) fino ad arrivare ai suoi ultimi due lavori Rasael men Al Yarmouk (Lettere da Al Yarmouk, 2014) e Writing on snow (2017). Notevole anche le sue opere televisive, due titoli su tutti: Long days in Gaza (1992) e Arafat, my Brother (2005). Ma forse il maggiore contributo che Masharaw ha dato, e continua a dare, al cinema è quello di aver girato all’interno dei territori occupati e di aver portando la settima arte nelle scuole e nei villaggi dei campi profughi.
Benché Michel Khleifi e Rashid Masharawi siano ancora attivi, il ruolo di ambasciatore del cinema palestinese è negli ultimi anni passato a Elia Suleiman. Nato a Nazareth il 28 luglio del 1960 da una famiglia palestinese di religione cristiana greco-ortodossa, terminati gli studi nella città natale, nel 1982 si trasferì negli Stati Uniti dove rimase fino al 1993. A New York venne introdotto nell’ambiente cinematografico dallo scrittore e critico d’arte britannico John Berger. Conobbe così il cinema europeo di Michelangelo Antonioni, Jean-Luc Godard, Wim Wenders, Aleksandr Sokurov e quello americano di John Cassavetes. Nella “grande mela”, Suleiman imparò le tecniche cinematografiche e realizzò due cortometraggi Introducing to the End of an Argument (Introduzione alla fine di un argomento, 1991) e l’episodio Takrim bi-l-Qatl (Omaggio dall’assassino) inserito nel film corale Harb El Khalij… wa baad (La guerra del Golfo… e dopo, 1993), un dura critica alla guerra e alle sue conseguenze condotta con ironia e surrealismo, elementi che saranno la cifra del suo cinema.
Nel 1994 Suleiman tornò in Palestina e, dopo aver insegnato cinema all’Università Birzeit di Gerusalemme, diresse il suo primo lungometraggio Segell Ikhtifa (Cronaca di una sparizione, 1996) conosciuto anche col titolo internazionale Chronicle of a Disappearance.
Frammenti della vita di ES, un regista palestinese (Elia Suleiman). Nel primo capitolo Diario personale, a Nazareth si verificano piccoli e grandi esempi di incomprensione; nel secondo Diario politico, il protagonista vaga per Gerusalemme alla ricerca di se stesso e di un appartamento e partecipa, senza riuscire a parlare, a conferenze sul suo ultimo film; nella terza parte La terra promessa, ES rientra a Nazareth nella casa dei genitori (interpretati dai veri genitori di Elia Suleiman).
Un film spiazzante, comicamente triste sui concetti di identità e alienazione, e sull’impossibile speranza di pace nei territori occupati. Troppo fragili, per il regista, le speranze legate agli Accordi di Oslo del 1993. Cinica ironia che non risparmia, ovviamente, i metodi oppressivi della polizia israeliana.
Con Cronaca di una sparizione, che si aggiudicò il Premio per la miglior Opera Prima alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Elia Suleiman portò sul grande schermo se stesso dando vita al personaggio di ES (le sue iniziali) che, come il Monsieur Hulot di Jacques Tati, attraversa il film quasi in silenzio, in un mondo che gli è ostile. Impostazione erede del cinismo del grandissimo Buster Keaton. Sono proprie del cineasta palestinese, invece, lo stile vignettistico e antinarrativo: la sparizione richiamata nel titolo del film è quella della storia da raccontare.
Suleiman nel 1998 realizzò Al Hilm Al-Arabi (The Arab Dream), un documentario autobiografico sul tema dell’identità, in cui mise a nudo le false speranze di pace e si interrogò: “Non ho una patria per poter dire che vivo in esilio… vivo in postmortem… vita quotidiana, morte quotidiana”. Nel 2000 il cineasta girò uno dei suoi film più originali, il cortometraggio Cyber-Palestina, con cui rilesse criticamente la mitologia religiosa. Giuseppe e Maria, in epoca contemporanea, cercano di attraversare la Striscia di Gaza per poter raggiungere Betlemme.
Il personaggio di ES tornò nel 2002 in Yadon ilaheyya (Intervento divino, Cronaca d’amore e di dolore) noto anche col titolo internazionale Intervention divine.
A Nazareth la vita quotidiana è in preda ad una grottesca follia, ogni piccolo problema diventa una tragedia. Qui vive ES (Elia Suleiman) che accudisce il padre morente (Nayef Fahoum Daher) e, sfidando i checkpoint, vede la fidanzata (Manal Khader) di Ramallah, la cui libertà di movimento è limitata al parcheggio di un checkpoint tra le due città.
Il film più noto del regista palestinese, un mix tra dolente ironia e cronaca politica. Composto da numerosi grotteschi episodi (dal Babbo Natale inseguito dai ragazzi al vecchio che buca il pallone finito sul suo tetto; dal poliziotto che, per dare indicazioni ad una turista, chiede informazioni al “suo” arrestato alla ninja palestinese, fino ad arrivare al palloncino col volto di Arafat) Intervento divino “racconta i piccoli, disperati drammi quotidiani di un luogo che ha perso ogni identità, dove la differenza tra palestinesi e israeliani è praticamente indistinguibile e l’odio di tutti contro tutti (anche i propri correligionari) ha preso il sopravvento” (Mereghetti). Sempre più evidente la “lezione” di Keaton e Tati.
Prodotto con capitali francesi Intervento divino si aggiudicò, a sorpresa, il Gran Premio della Giuria a Cannes, il Premio Internazionale della Critica (FIPRESCI), quello per il Miglior Film straniero agli European Awards di Roma del 2002, ma non venne ammesso agli Oscar, perché, stando alla motivazione ufficiale, la Palestina non sarebbe uno stato sovrano (sono, tuttavia, in molti a sostenere che l’esclusione fosse una scelta politica).
Nel 2006 Elia Suleiman fece parte della Giuria al Festival di Cannes del 2006 e l’anno successivo partecipò al film collettivo Chachun son cinéma (A ciascuno il suo cinema) voluto da Gilles Jacob, produttore e presidente a Cannes, per festeggiare i sessantanni del Festival. Tra i registi coinvolti Theo Angelopoulos, Michael Cimino, Ken Loach, Nanni Moretti Wim Wenders. Nell’episodio del cineasta palestinese, Irtebak (Maldestro), lo stesso Suleiman combina pasticci alla prima di un suo film, come sempre tra Palestina e Buster Keaton.
Il successivo lungometraggio di Suleiman fu l’autobiografico The Time That Remains (Il tempo che ci rimane, Cronaca di un assente-presente), presentato a Cannes nel 2009.
Suleiman (se stesso) torna in aereo in Palestina, ma un temporale blocca il taxi che lo stava riportando a casa. Il regista ripercorre così il conflitto tra Israele e Palestina, ricordando episodi della vita della sua famiglia. Nel primo, ambientato nel 1948, Fouad Suleiman (Saleh Bakri), il padre di Elia, combattente della resistenza palestinese, viene picchiato e torturato dai soldati israeliani, che si fermano solo quando lo credono morto. Nel secondo il ricordo si sposta nel 1970 col piccolo Elia (Zuhair Abu Hanna) rimproverato a scuola per aver definito gli Stati Uniti un paese colonialista. Nel terzo il padre ha problemi di salute mentre ad Elia ormai adolescente, siamo negli anni 80, è costretto all’esilio. Nel quarto episodio l’azione torna al presente e Suleiman raggiunge finalmente casa per assistere la madre (Shafika Bajjali) malata e scoprire le nuove ingiustizie degli occupanti israeliani.
Il film più ambizioso del regista che perfezionò il suo umorismo, riuscendo a raccontare una realtà insensata e ingiusta. Non mancano, tuttavia, passaggi genialmente comici, come, ma non solo, quello della sequenza finale del film nella quale il protagonista scavalca con un’asta il muro che gli israeliani hanno eretto per tenere lontano i palestinese. Un gesto folle, rivoluzionario, compiuto impassibilmente come avrebbero fatto Keaton e Tati.
Nel 2012 Suleiman partecipò ad un nuovo film collettivo 7 días en La Habana (7 giorni all’Avana) conosciuto col titolo 7 Days in Havana. Nell’episodio realizzato dal regista palestinese, intitolato Diary of a Beginner, il solito immenso ES (Elia Suleiman) deve realizzare un’intervista a Fidel Castro, ma preferisce vagare, senza meta, per la città. Un film modesto in cui brilla solo il corto di Suleiman.
Dopo essere stato membro della giuria a Venezia nel 2014, il regista palestinese è tornato dietro la macchina da presa per realizzare It Must Be Heaven (2019), recentemente presentato a Cannes, dove il regista è stato a lungo applaudito.
ES (Elia Suleiman) fugge dalla sua terra, perché spera che fuori dalla sua Palestina il mondo possa essere un paradiso, ma tra la Parigi militarizzata e gli Stati Uniti ossessionati dalle armi, scopre a malincuore che il mondo, ormai, è tutto un medio oriente.
Cinico e struggente, con una battuta folgorante del suo personaggio, l’unica del film, che è un messaggio al mondo. All’arrivo di ES a New York, un tassista gli chiede da dove viene e il protagonista sereno risponde: “Nazareth, Palestina”. La politica, i governi, le occupazioni, i muri dicono che quella è una città israeliana, ma Suleiman è più potente della mai applicata risoluzione dell’ONU.
Impossibile prevedere se e quando uscirà un nuovo film di Suleiman, ormai i suoi tempi ricordano quelli di Stanley Kubrick, ma il suo cinema, come prima avevano fatto quelli di Michel Khleifi e Rashid Masharawi, ha aperto la strada a una nuova generazione di cineasti palestinesi, tra cui spiccano molte donne da Mai Masri a Norma Marcos, da Azza al-Hassan a Liana Badr, da Najwa Najjar a Nada El-Yassir.
Ma la capacità più grande di Elia Suleiman, visionario, iconoclasta, provocatorio, continua ad essere quella di far conoscere alla comunità internazionale le istanze di un popolo oppresso e di una terra martoriata. Palestina libera.
redazionale
Bibliografia
“Yasser Arafat. Una vita per la Palestina” di Giancarlo Lannutti, Ennio Polito – Alegre
“Il cinema dei paesi arabi” di Andrea Morini, Anna Di Martino, Michele Capasso – Magma
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: immagine in evidenza Screenshot dei film Intervento divino e It Must Be Heaven, foto 1,2, 6 da gettyimages.fr,, foto 4, 5, 7, 8, 9, 10, 11 Screenshot del film riportato nella didascalia