Aveva ragione Maurizio Landini quando scriveva alcuni anni fa, in “Forza lavoro” edito da Feltrinelli, che in questa epoca di superficialità e superficialismi, quindi di comportamenti legati ad una (in)cultura simile, per accorgersi dell’esistenza dello sfruttamento del lavoratore c’era bisogno e c’è ancora bisogno di gesti eclatanti.
La “materializzazione” di ciò che dovrebbe risultare evidente avveniva, ed avviene, mediante una risonanza mediatica che si attiva solamente quando qualcosa esce completamente dalla “norma” e diviene non una caratteristica del sistema in cui viviamo e che emerge per le contraddizioni del sistema che dovrebbe essere oggetto della consapevolezza singola e collettiva, ma per la “stranezza” di un episodio, di un gesto, di un evento.
Facciamo qualche esempio: un rider, uno di quei giovani con zaino cubolare in spalla a cavallo di una bicicletta viene investito da una automobile e perde la vita per questo tipo di sfruttamento del lavoro. Notizia che rimbalza su tutte le testate giornalistiche in quanto prima di tutto c’è una vittima e poi, solo successivamente, ci si accorge che magari le condizioni di lavoro sono le prime mandanti di questi omicidi cosiddetti “bianchi“.
Un gruppo di lavoratori sta per perdere il posto e sale sul tetto di una fabbrica, espone striscioni e qualcuno minaccia persino di gettarsi dal tetto? Altra notizia bomba da tambureggiare ovunque: nell’epoca delle reti sociali intrise di odiatori di professione, tutto ciò è ancora più facile e anche manipolizzabile.
Ma la sostanza resta: la lotta di classe, lo sfruttamento, l’esistenza della catena di montaggio che – come dice Landini – “esiste anche e soprattutto fuori dalla fabbrica” tornano alla ribalta delle cronache e qualcuno si accorge della loro esistenza non per gli effetti che quotidianamente producono ma per gli eccessi che creano in determinate situazioni.
Se, dunque, la coscienza sociale, critica e di classe si risveglia (ammesso che si risvegli veramente) soltanto davanti al fatto compiuto e soprattutto a quello più estremo, significa che l’anestetizzazione delle masse e la loro conduzione verso convincimenti di parziale o totale accettazione del sistema economico capitalistico – quindi dell’origine di tutte le sciagure che patiamo a causa della conformazione di un regime di classe che privilegia pochissimi enormemente ricchi e sfruttatori e immiserisce miliardi di persone sfruttate – è ancora in atto e che viene perseguita con l’abilità di chi riesce ad adattarla ai mutamenti anche sociali che, per loro natura, intervengono nelle contraddizioni che, volente o nolente, il capitale subisce.
Nemmeno più gli ammortizzatori sociali riescono a fare fronte al cambiamento rivoluzionario (nel senso deleterio del termine, non certo progressista) tanto della struttura del lavoro quanto di quella di composizione del salario: non esistono più compensazioni tali da rendere la retribuzione capace di resistere alla rapacità economica del liberismo sfrenato.
Di più ancora, tanto i governi tecnici quanto quelli di destra populista e sovranista e tra poco anche gli interventi antisociali del cosiddetto governo “giallorosso“, non hanno fatto altro se non accanirsi naturalmente (si prenda l’avverbio nel senso letterale del termine: “per la loro natura“) contro i redditi delle classi proletarie, quelle più disagiate e prive di qualunque protezione sociale.
I lavoratori sono molto più sfruttati d’un tempo, ma la sinistra moderata e riformista, quella – per dirla con le parole di Fausto Bertinotti – “malata di governismo“, ritiene di poter essere utile non tanto nel processo di costruzione di una trasformazione sociale radicale ma nel contenimento degli eccessi del liberismo, applicandosi risolutamente al ruolo subalterno di fiancheggiamento “da sinistra” (per l’appunto) di politiche esplicitamente di destra liberal-liberista.
Il populismo, si dice, appare sconfitto. Eppure sappiamo benissimo tutte e tutti che non è così. Soprattutto non è sconfitto quel neofascismo sovranista che calvacherà abilmente tutte le storture che saranno prodotte da un governo che si vuole mostrare come “popolare” e “sociale” e che invece ha già impostata una linea binaria che pretende di far marciare sulla stessa tratta convogli che trasportano interessi e privilegi per le classi dominanti e bisogni per le classi sfruttate.
In questo contesto, comprendo le ragioni espresse dalle compagne e dai compagni di Sinistra Italiana nel documento licenziato dalla Direzione nazionale. Schierarsi con il governo Conte 2 è naturale per qualunque formazione politica che ritenga una perdita di tempo pensare alla costruzione di un soggetto neo-anticapitalista o anche solamente antiliberista.
Comprendo le loro ragioni ma dissento in modo radicale dalla loro impostazione per far emergere quei diritti cui anelano, cui tutti aneliamo. È un comportamento da elemosinieri, che subordina alla logica del miglioramento del capitalismo le ragioni sociali che devono ritrovare una speranza assoluta è veramente “rivoluzionaria”. Quelle ragioni sociali non possono finire in questa farsa.
È arrivato il momento, ancora una volta, di rimarcare le differenze a sinistra: tra riformisti-governisti e rivoluzionari-comunisti.
Chi crede, sostenendo questo governo, di promuovere i diritti dei più deboli non fa altro se non impoverire e rallentare il cammino di una nuova rinascita dell’anticapitalismo. Ma forse è proprio quello a cui non mirano.
Siamo rimasti soli ancora una volta e per questo serve oggi mettere Rifondazione Comunista al servizio di un progetto prima di tutto culturale e sociale per averne uno anche politico da riportare in Parlamento.
Dovete scegliere compagne e compagni: o con il PD e i Cinquestelle per delle riforme antisociali mascherate da interventi sociali o con un nuovo movimento comunista, rinnovato e nuovamente cosciente di essere l’unica alternativa possibile a tutto questo liberismo…
La mia scelta sarà quella di ventisette anni fa… pensavo fosse giusta allora, penso lo sia molto di più oggi.
MARCO SFERINI
8 settembre 2019
foto tratta da Pixabay