Sul finire degli anni ’80 del secolo scorso il Fondo Monetario Internazionale, uno degli organismi di Bretton Woods a guardia della stabilità del capitalismo globale insieme alla Banca Mondiale, costrinse letteralmente gli Stati più poveri del pianeta ad adottare quelli che venivano chiamati i “programmi di aggiustamento strutturale“. Si trattava, in breve, di piani di intervento nelle economie di nazioni del secondo e terzo mondo, depredati da secoli di colonialismo prenovecentesco e di moderno imperialismo praticamente a noi coevo.
Piani che, ovviamente, prevedevano per quei paesi un riallineamento alle previsioni di crescita che non erano state rispettate.
Un po’ perché le condizioni generali delle singole economie nazionali non lo consentivano, visto lo scivolamento progressivo verso una povertà sempre più vasta e ramificata in ogni settore sociale, ed un po’ per una malversazione politica che, anche quando si trattava di obbedire a programmi di sostegno sociale, non disdegnava di accompagnarsi a situazioni di vera e propria compromissione con un privatismo che sollazzava gli interessi dei singoli rappresentanti del potere.
Privatizzazioni a tutto spiano, accelerazione verso la fase turbocapitalistica di fine Novecento e corruttele varie nelle dinamiche tra politica e impresa, tra governi e classi dirigenti padronali, avevano tracciato la strada di un liberismo sempre più marcato, dove la parte dello Stato era ridotta praticamente a servitor cortese della grande finanza che sovvenzionava i conflitti un po’ dovunque e teneva così alta la tensione in tante regioni storicamente problematiche per questioni etniche, religiose, culturali, sociali e ovviamente politiche.
L’America Latina fu, da questo punto di vista, un laboratorio decisamente interessante per i Chicago Boys, per quell’America a stelle e strisce che, nel risiko della Guerra fredda, di un bipolarizzazione del pianeta e di una spartizione praticamente a metà delle zone di influenza, pretendeva di far valere le sue ragioni di libertà contro la tirannia del socialismo reale, contro l’oligarchia sovietica, contro qualunque tentativo di alternativa al dogma del libero mercato, del privato prevalente sul pubblico, del pubblico al servizio del privato, del capitale come regolatore di una presunta armonia universale.
Ben presto, laddove il Fondo Monetario Internazionale aveva previsto degli interventi massicci nella ristrutturazione delle economie interne dei paesi maggiormente lontani dagli obiettivi di risanamento del bilancio in chiave, naturalmente, liberista e, quindi, occidentalista a tutto tondo, scoppiarono rivolte, scioperi, proteste. Dall’India all’Egitto, dal Venezuela al Cile, dalla Bolivia al Messico che iniziava a conoscere il fenomeno della guerriglia zapatista nella Selva Lacandona, in Chiapas.
I governi, divenuti dei meri esecutori della volontà del FMI e della Banca Mondiale, disposero a questo proposito la costituzione di “zone di produzione per l’esportazione“.
Dalla Corea alle Filippine, dal Brasile alla Cina, dal Sud Africa all’Argentina, l’industrializzazione non seguì un percorso di accrescimento del prodotto interno lordo nazionale soltanto, ma rivolse la sua produzione al soddisfacimento dei bisogni esteri, di nazioni già ricche che, in questo modo, lo diventavano ancora di più, mentre nei paesi appena citati la miseria e la povertà strutturale aumentavano.
Proprio nell’Argentina della dittatura di Videla, il Proceso de Reorganización Nacional comprendeva una decisa conversione dell’economia al liberismo che diventava globalmente dominante.
Dicevano i generali golpisti, per sostenere uno sforzo complessivo che portasse Buenos Aires nell’alveo delle nazioni occidentali e cristiane. Il tutto sorretto da un legame indissolubile della destra militarista e criminale, che assassinò senza pietà decine di migliaia di oppositori politici, di intellettuali e di semplici cittadini che si mostravano critici verso il regime, con le alte sfere della Chiesa cattolica e con chiunque avesse in odio il marxismo e il comunismo.
La pianificazione delle privatizzazioni a tutto spiano, di un sempre minore ruolo dello Stato nell’economia del paese, somiglia moltissimo a quello che si prefigge oggi di mettere in pratica il neopresidente eletto, l’economista “anarco-liberista” Javier Milei.
Il dibattito internazionale sulla ricomposizione dal basso di una rete di economie che ispirasse un nuovo modello di stato-sociale è stato ridotto, dai presidenti sovranisti, autoritari, autarchici e ultraliberisti al tempo stesso, ad una diatriba ideologica a cui appioppare l’etichetta del riflusso socialisteggiante di intere comunità che, invece, avrebbero dovuto scorgere nel mercato la grande soluzione dei loro endemici problemi di sopravvivenza.
Milei non fa eccezione. Da seguace della scuola economica viennese, il cui mantra è un individualismo metodologico davvero esasperante, capace di negare qualunque interesse collettivo nella stretta correlazione con quello del singolo cittadino, della singola persona, Milei conferma, anzi, la regola.
E’ convinto che la “dollarizzazione” dell’Argentina e il passaggio dal pubblico al privato della televisione e della radio di Stato e di interi settori industriali di vitale importanza, sia il viatico imprescindibili attraverso cui far passare la nuova stagione di progresso e libertà della nazione. Propone l’abolizione della Banca centrale e teorizza quello “stato minimo” che deve gestire ma non governare i processi economici che riguardano la comunità-paese.
E’ naturalmente Friedrich August von Hayek uno degli ispiratori di quella anarchia del mercato (che con il movimento anarchico non ha proprio nulla a che spartire) che Milei oggi pretende di mettere in pratica in un paese dove l’inflazione è al 142%, dove sono poveri quattro argentini su dieci e dove, infatti, come volevasi dimostrare, la risposta politica alla grande crisi economica e sociale è sempre e soltanto quella dell’accettazione di un programma di estrema destra da parte di una parte della popolazione proletaria, indigente e ai limiti della sopportazione quotidiana che, in questo modo, si dà addosso senza saperlo.
Il programma politico-economico di Milei è quanto di più lontano possa esservi da una considerazione dei bisogni sociali come elemento cardine di uno sviluppo di un po’ di benessere per le classi sociali meno abbienti. E’ rivolto a tutelare tutti quei piccoli, medi e grandi imprenditori che lo hanno votato perché sanno che la ricetta peronista è un compromesso irrealizzabile tra democrazia e impresa, tra democrazia e società stessa.
Sebbene lo stesso peronismo sia il fantasma di un regime autoritario che, con molte anomalie, si colloca comunque nel solco delle dittature della seconda metà del Novecento e non rappresenta certo una sorta di esprimento socialisteggiante, un compromesso dal basso, una sorta di tentativo di cooperazione tra l’Argentina e il resto dell’America Latina e del mondo.
La competizione economica è un tratto molto ben distintivo della destra globale, e lo è perché proprio la destra rappresenta il punto di incontro tra il conservatorismo istituzionale, il tradizionalismo clericale e il capitalismo liberale di un tempo che, oggi, si sposa benissimo nella sua mutazione liberistissima con il peggio del sovranismo declinato come trumpismo e bolsonarismo ieri, mielismo oggi.
Si sà, per essere compiutamente conservatori e dirsi al contempo degli “anarchici di mercato“, convinti che solo questo possa essere il prodromo di una sorta di palingenesi degli elementi corruttori del passato, bisogna essere necessariamente estrosi, dediti ad un istrionismo che incanta le masse vilipese, smarrite, violentate giorno per giorno nei loro diritti fondamentali. Ed infatti Milei imbraccia in campagna elettorale una motosega per simboleggiare la violenza purificatrice del taglio col vecchio assetto di potere.
La “casta” diventa il catalizzatore della rabbia tanto popolare quanto di un economista cinquantatreenne cresciuto a pane e odio per lo Stato come garante sociale, come espressione del benessere pubblico e collettivo. Per lui conta solamente l’individuo che deve e può affermarsi affidandosi ad un caos universale, ad un quasi primordiale stato di natura dove vale soltanto la capacità di farsi largo con la stessa logica del “self made man” nordamericano.
Il 56% degli argentini, eterogeneamente in quanto ad abbraccio interclassista nei confronti della proposta politico-economica di Milei e del suo partito ultraliberista, ha scelto di mettere da parte la vecchia politica fatta di troppi compromessi, di poche promesse realizzate, di un disagio sociale che è diventuo veramente esponenziale. Quando manca una alternativa davvero progressista, vince chi urla di più e chi promette lo scambio tra i diritti e l’ordine, tra la libertà e la sopravvivenza. Milioni di argentini poveri hanno votato colui che è, per loro, il primo, il primissimo nemico.
Il paradosso che si genera è proprio questo. Se in alternativa a Milei tu hai un peronista che ha ricoperto il ruolo più odiato nel paese in questo momento, quello di ministro dell’economia, è evidente che al ballottaggio, dove la scelta si riduce drasticamente a due sole posizioni nemmeno poi tanto alternative fra loro, sei portato a scegliere l’originale rispetto alla copia, il presunto nuovo rispetto all’usato insicuro.
Il conservatorismo iperliberista di Milei preannuncia, per bocca del neopresidente eletto, una stretta repressiva nei confronti di qualunque dissenso, di qualunque protesta si possa generare contro le sue politiche. Non meraviglia, epperò amareggia molto.
Si tratterebbe anche di imparare dalla propria storia, da quella quindi fatta di colpi di Stato che hanno fatto conoscere al mondo la lugubre tragedia e l’orrore dei “desaparecidos” e, quindi, di non riproporre alla tentazione del potere personaggi come Milei che accarezzano il militarismo repressivo come sentinella obbediente degli ordini di governo.
Ma più di tutto si tratta di avere una diversa considerazione dei propri bisogni in rapporto a quelli di chi, sul fronte del privato, non può per sua collocazione entro la dinamica capitalistica e liberista, e quindi per il ruolo che ha, farsi interprete della valorizzazione tanto di una comunità quanto dei beni comuni. Ciò che è pubblico, per conseguenza è di tutti e dovrebbe quindi essere tutelato da chi ha interesse a difendere la grande massa dei salariati, dei lavoratori, dei precari, degli studenti, dei pensionati.
Ciò che è privato, priva a sua volta, come un participio passato politicamente ed economicamente tradotto nella cruda realtà di un sistema che deve fingere di essere motore dello sviluppo nazionale e globale e che, invece, è auotoconservazione del privilegio di pochi ed esponenzializzazione della miseria di tanti, tantissimi. Di tutti gli altri che non hanno le redini del ciclo produttivo.
Javier Milei è il peggio che l’Argentina potesse scegliere come presidente. E’ un ritorno al passato nella cornice di un futuro che prende il peggio dall’ieri per inverarlo nuovamente in una attualizzazione e modernizzazione di un processo di separazione tra le classi che contempla anche la separazione tra diritti sociali e civili, libertà di parola, di critica e di organizzazione del dissenso da assoluta ubbidienza nei confronti di una delega che può diventare arbirtrio di potere.
Lo si è visto molto bene col fenomeno trumpiano.
Peccato che l’alternativa (Biden – Harris) abbia deluso e confermato, caso mai ce ne fosse bisogno, che la risposta all’anarco-capitalismo, al populismo, al sovranismo e alle destre estreme che li rappresentano nei palazzi istituzionali e nei centri nevralgici del potere, non sta nel temperamento degli eccessi del sistema delle merci e dei profitti, ma nel capovolgimento di tutto quello che, da destra, dal centro o da sinistra, pretende di mettere insieme pubblico e privato, strizzando l’occhio a quest’ultimo per garantirsi un ruolo politico.
Degradante per qualunque progressismo che voglia dirsi tale. E per questo, alla fine del gioco, a vincere sono gli originali e non le brutte copie.
MARCO SFERINI
21 novembre 2023
foto: screenshot You Tube