Africa. In quella che oggi è la Repubblica Centroafricana il cinema non ha praticamente lasciato traccia. Dei primi cento anni di storia, infatti, si ricordano esclusivamente i filmati dell’era coloniale francese (Gbédélé: femme, fille et mère, De l’arbre au xylophone, Justice coutumière chez les Nzakara, Tonga bondo: Fête des ancêtres) e i documentari, sulle tradizioni del Paese, realizzati dalla regista Léonie Zowe Yangba (Ouango, 1948): Yanba-bolo (1985), Nzale (1985), Lengue (1987), Paroles de sages (1987), Démon au féminin (1990). Solo in tempi più recenti “la settima arte” ha provato a ritagliarsi uno spazio. Ad inizio degli anni duemila (sembra davvero incredibile…) sono stati prodotti i primi film a soggetto nel Centrafrica, il più conosciuto, presentato anche a Cannes, è Le Silence de la forêt (2003) diretto dal camerunense Bassek Ba Kobhio. Sempre negli anni duemila sono stati girati alcuni documentari, ancora realizzati da registi stranieri, tesi a denunciare l’emergenza sanitaria, i crimini di guerra, il traffico di diamanti nella Repubblica Centrafricana. Da ricordare, rispettivamente, Crisis in Central African Republic: Malaria (2010) dell’indiana Indrani Pal-Chaudhuri, Carte blanche (2011) dello svizzero Heidi Specogna e The Ambassador (2011) del danese Mads Brügger.
Nell’ultimo decennio si sta, invece, delineando un vero e proprio “cinema centroafricano”, grazie all’affermazione di giovani cineasti nati e cresciuti nel Paese. Da Sylviane Gboulou Mbapondo (Bangui, 12 dicembre 1983) regista, attrice e produttrice, che ha diretto la serie TV Sophia Banguissoisse (2009) e Bienvenue en France (2012) sulla condizione degli immigrati africani in Francia a Pascale Gabriella Serra Nga Gnii Voueto (Bangui, 31 marzo 1982) autrice di BêAfrika (2015) film sociale sulle sfide quotidiane del suo popolo, da Aristide Ephrem Kondamoyen (1991) autore del cortometraggio “giovanile” Kodro Timo (2010) a Leila N’Deye Thiam (Bangui) regista di Chambre 1 (2018) film ambientato della stanza numero 1 dell’ospedale di Bangui, i cui dieci donne, in attesa di tornare a casa, condividono preoccupazioni, speranze, progetti, ma anche risate e buonumore. Tre autrici e un autore liberi, tutti nati dopo la caduta di Jean-Bedel Bokassa.
Capo indiscusso delle forze armate della Repubblica Centroafricana, dopo aver combattuto per la Francia la Seconda guerra mondiale e la Guerra di Indocina, Bokassa divenne Presidente, con un colpo di Stato “aiutato” da Parigi, il primo gennaio del 1966. Nel marzo del 1972 si nominò “Presidente a vita” e, tra un cambio di fede religiosa e un altro, trasformò la Repubblica Centroafricana in un impero di cui, il 4 dicembre del 1977, si autoproclamò imperatore col nome di Bokassa I, regno durato fino al 1979. Per la sua incoronazione organizzò una sontuosa cerimonia. Voleva che il mondo rendesse omaggio ad un imperatore africano, così come aveva fatto nel 1930 ad Hailé Selassié. In quell’occasione si mossero capi di Stato, per Bokassa non si scomodò nessuno. Non l’Imperatore Hirohito del Giappone o lo Sciaà Reza Pahlavi dell’Iran, i primi ad essere invitati poiché gli unici considerati da Bokassa di pari rango. Non il Generale Franco che regalò all’amico un’armatura che il dittatore centroafricano conservò fino alla fine dei suoi giorni. Anche i sodali tiranni, Idin Amin e Mobutu, declinarono l’invito. Alla fine gli ospiti più autorevoli risultarono essere un parente del sovrano del Liechtenstein, il Conte Emanuel, e il Primo ministro delle Isole Mautitius, sir Seewoosagur Ramgoolam. Tra gli stranieri presenti anche il giornalista Michael Goldsmith che, accusato di essere una spia sudafricana, venne incarcerato e torturato dallo stesso Bokassa. Goldsmith divenne, anni dopo, protagonista del documentario Echos aus einem düsteren Reich, tradotto in Italia come Echi da un regno oscuro, diretto nel 1990 dal regista tedesco Werner Herzog.
Oltre venti anni dopo aver realizzato in Africa la sue surreale trilogia formata da Die Fliegenden Ärzte von Ostafrika (I medici volanti dell’Africa orientale, 1969), Auch Zwerge haben klein angefangen (Anche i nani hanno cominciato da piccoli, 1970) e Fata Morgana (1971), Herzog tornò nel “continente nero” per indagare l’inquietante realtà storica vissuta in Centrafrica negli anni di Bokassa. I suoi delitti, le sue follie, le torture inflitte ai prigionieri politici e agli studenti che osavano ribellarsi, il cannibalismo.
Riprese così uno dei filoni classici del suo cinema, quello dei personaggi, in positivo o in negativo, “fuori dal mondo”: da Aguirre a Kaspar Hauser, da Nosferatu a Fitzcarraldo. Per raccontare Bokassa, Herzog collaborò, come detto, con Michael Goldsmith che ritornò nei luoghi che lo avevano segnato, per intervistare, tra Centrafrica, Francia e Italia, mogli, figli, amanti, oppositori politici, avvocati, militari, gente comune che avevano conosciuto l’Imperatore del Centrafrica. Il regista avrebbe voluto intervistare lo stesso Bokassa, che stava scontando la sua pena nel carcere di Bangui, ma dopo un’iniziale disponibilità concessa dall’allora presidente André Kolingba (più volte ambasciatore all’estero per l’Imperatore…), Herzog, Goldsmith e la troupe vennero arrestati ed espulsi dal Paese. Il cineasta tedesco arricchì il film con immagini di repertorio, principalmente quelle della cerimonia di incoronazione e quelle del processo, e alcuni brani di musica classica, indimenticabili le note del “Piano trio No 2” di Franz Schubert già utilizzata da Stanley Kubrick in Barry Lyndon, che resero il film ancora più cupo. Il 28 novembre del 1990 si tenne la prima di Echos aus einem düsteren Reich.
All’inizio del film lo stesso regista compare nelle vesti di autore dicendosi preoccupato per le sorti di Goldsmith scomparso nei tumulti della Guerra civile in Liberia. Legge così una lettera che il giornalista gli aveva inviato prima di iniziare le riprese in cui spiegava l’intento “di voler ripercorrere un episodio della sua vita non tanto per esigenze personali quanto per un motivo suggerito da una voce altra, un sogno ripetutosi per due volte”. Sogno che Herzog visualizza mostrando una marea di granchi rossi, facendone una metafora del male. Il documentario vero e proprio inizia con l’intervista fatta da Goldsmith a Augustine Assemat, l’ultima moglie di Bokassa, accompagnata dal più piccolo dei (pare) cinquantaquattro figli dell’Imperatore del Centrafrica. I volti sono sereni come quelli di altre due figlie di Bokassa, la prima avuta avuta da Gabriela Drimba, una ballerina rumena conosciuta in un nightclub di Bucarest durante una visita all’alleato Ceausescu, la seconda da un’amante cinese. Più misteriosa, invece, la storia delle due figlie vietnamite, una vera, una falsa, chiamate entrambe Martine Nguyen. Nel 1953, quando era in guerra in Indocina, Bokassa aveva sposato una ragazza a Saigon e, decenni dopo, saputo che dalla loro unione era nata una figlia, dichiarò pubblicamente di volerla ritrovare. A Bangui si presentò così una finta Martine, pare mandata dai francesi. La notizia fece il giro del mondo e Bokassa venne ridicolizzato, ma per tutta risposta decise di adottare la ragazza. Anni dopo si presentò la vera Martine, intervistata da Goldsmith, e per la felicità il tiranno organizzò una sorta di “asta pubblica” per dare in sposa le sue due figlie. Si presentarono in centinaia. Vennero scelti un ufficiale dell’esercito chiamato Fidel Obron e un medico di nome Dede Abode. Fine tragica per entrambi. Il primo si suicidò dopo un fallito golpe ai danni del “suocero”, il secondo, fedele a Bokassa, dopo aver ucciso per vendetta la falsa Martine e il piccolo nipote, venne fucilato alla caduta del tiranno. Il documentario raccoglie anche le testimonianze di David Dacko, Presidente prima e dopo Bokassa, del legale Francis Szpiner, dell’avvocato difensore Francois Gibault e di Marie-Reine Hassen, intervistata da Goldismith a Venezia, costretta a sposare Bokassa per salvare la sua famiglia. Significativi anche i materiali di repertorio riguardanti l’incoronazione, con lo stanco e annoiato figlio Jean-Bédel Bokassa II e l’imperatrice Catherine Denguiadé. Ricordi e immagini che tratteggiano il ritratto di un folle ammiratore di Napoleone e De Gaulle, di un tiranno amante del kitsch, di un torturatore che faceva sbranare da leoni e coccodrilli gli oppositori. Proprio lo zoo che ospita gli animali un tempo del dittatore è l’ultimo luogo visitato da Goldsmith. Il guardiano chiede una sigaretta al giornalista, la accende e la porge ad un triste scimpanzé chiuso in una gabbia che si mette a fumare. Goldismith, sconvolto, chiede che sia questa l’ultima scena del film, mentre la scimmia continua ad inspirare guardando la macchina da presa.
Bokassa come paradigma della follia del potere. Il miglior documentario di Herzog, che indaga sulla realtà storica, sull’evidenza dei crimini commessi (Bokassa si salvò solo dall’accusa di cannibalismo, nonostante la testimonianza del cuoco al processo) che il regista seppe unire alle verità misteriose delle credenze africane, realizzando così il ritratto angosciante di un uomo stretto tra potere e violenza. Una violenza, tuttavia, che non viene mai mostrata, ma rivive nelle parole degli intervistati, tutti freddi, consapevoli e distaccati, e soprattutto nei ricordi della prigionia di Goldsmith, filo conduttore di tutto il film. In Italia Echi da un regno oscuro, mai uscito in sala, è stato trasmetto dalla solita “Fuori orario” ed è disponibile in DVD.
Dopo Echos aus einem düsteren Reich Werner Herzog, tra i protagonisti del Nuovo cinema tedesco insieme a Wim Wenders, Rainer Fassbinder e Hans-Jürgen Syberberg, ha continuato e continua a fare grande cinema, ma non ha più collaborarato con Michael Goldsmith. Le preoccupazioni sulla sua sorte, espresse dal regista ad inizio film, erano purtroppo fondate. Il giornalista, nato a Vienna nel 1921 da genitori britannici, nel settembre del 1990 venne catturato e torturato in Liberia. Il cronista, corrispondente estero della Associated Press per 45 anni, riuscì a scappare in Francia. Ricoverato per le ferite riportare presso l’ospedale di Grasse, Goldsmith morì nella notte tra il 24 e il 25 ottobre del 1990, poco prima dell’uscita di Echi da un regno oscuro.
Il suo torturatore centrafricano gli sopravvisse. Bokassa (Bobangi, 22 febbraio 1921), infatti, dopo essere stato spodestato il 20 settembre 1979 da un colpo di Stato, sempre “aiutato” dalla Francia, che riportò al potere David Dacko, si rifugiò in Costa d’Avorio. L’anno seguente, nel dicembre del 1980, venne condannato a morte in contumacia. Trovò quindi rifugio in Francia nel 1985, protetto dall’ex Presidente Valéry Giscard d’Estaing cui Bokassa aveva sempre garantito fedeltà, diamanti e donne (senza contare che la moglie di Bokassa, Catherine Denguiadé, divenne amante del Presidente francese), ma il 24 ottobre del 1986 il primo e unico Imperatore del Centrafrica tornò a sorpresa nel suo Paese. Dopo un nuovo colpo di Stato fallito, fu arrestato e processato per alto tradimento, assassinio, cannibalismo ed appropriazione indebita. Il 12 giugno 1987 venne nuovamente condannato a morte, ma la pena fu commutata prima in ergastolo, poi in venti anni di carcere. Infine, nel 1993, Bokassa godette di un’amnistia generale concessa dal Presidente André Kolingba, salito al potere con un golpe ai danni di Dacko. Il tiranno, despota, folle, cannibale, torturatore del Centrafrica, morì d’infarto, da uomo libero, il 3 novembre del 1996. Venne sepolto nelle rovine del suo palazzo di Berengo dove ancora si possono cogliere gli echi dei suo regno oscuro.
redazionale
Bibliografia
“Leoni d’Africa – Padri (e padroni) del Novecento nero” a cura di Pier Maria Mazzola – Epoché
“Parola del diavolo – Sulle tracce degli ex dittatori” di Riccardo Orizio – Laterza
“Werner Harzog” di Fabrizio Gosoli e Elfi Reiter – Castoro
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: Immagine in evidenza immagine, foto 2, 4, 5, 6 Screenshot dal film Echi da un regno oscuro, foto 1 Screenshot del film Chambre 1, foto 3 da it.wikipedia.org.