Vorrei evitare di scendere al livello dell’ovvietà, della banalizzazione tanto dei concetti quanto delle situazioni che esprimono e che, a ben vedere, sono veramente gravi e, di ora in ora, peggiorano ulteriormente. Vorrei evitare tutto questo ma, ogni tanto, vi sono tirato in mezzo, costretto a rispondere se sto da una parte e, nel caso sia così, perché da questa e non dall’altra.
Un po’ di indulgenza la chiedo, perché trattare di questi temi vuol dire necessariamente dover abbandonare la forza delle argomentazioni più lunghe e ragionate per lasciarsi trascinare dalla polemica facile, dalla stereotipizzazione di una serie di questioni che tutto meriterebbero tranne il chiacchiericcio improvvisato di una ampia gamma della cosiddetta “opinione pubblica” che si esercita nell’improvvisazione ormai da tempo. Forse ben da prima che nascesse l’ossessione-compulsione per i social.
La questione ucraina, con la guerra che avanza insieme ai carri armati che penetrano nel Donbass e gli americani che stuzzicano Putin sull’ingresso di Kiev nell’Alleanza atlantica, è davvero molto difficile da vivere con la partigianeria immediata, richiesta da chi ha bisogno di sapere sempre da che parte stare.
E’ una vita che sto da una parte ben precisa e quindi non si tratta di scegliere con chi schierarsi. Si tratta proprio dello schierarsi senza schierarsi, perché, mentre in conflitti come la Seconda guerra mondiale era evidente da che parte stare (almeno per chi aveva a cuore la libertà e la democrazia – anche quella “borghese“, sì… conosco il refrain…), e così lo era anche con il conflitto tra Viet Nam del Nord e del Sud, tra Cuba e Stati Uniti d’America, con l’avvicinarsi ai nostri giorni la linea di distinzione delle parti si è fatta sempre più sottile.
L’impercettibilità di un confine netto, che separasse il giorno dalla notte, i buoni dai cattivi e stabilisse, nel nome di diritti umani, civili e sociali universalmente riconosciuti, che quella era la parte giusta mentre l’altra era quella assolutamente sbagliata, è divenuta una costante nei conflitti di fine novecento e dei primi vent’anni del nuovo millennio.
Se si va indietro con la memoria fino alle guerre balcaniche che hanno sancito la definitiva disintegrazione della Jugoslavia (o meglio, di quel poco che ne rimaneva ad egemonia serba), si può già distinguere lì la difficoltà per noi comunisti di schierarci: di primo istinto viene da parteggiare per l’aggredito, per il più debole, per chi combatte con le fionde mentre dall’altra parte si lanciano dai caccia missili e bombe altamente sofisticati, si disseminano mine antiuomo nei deserti asiatici, si cosparge di fosforo bianco ogni città mesopotamica che si incontra e, per dare alla guerra il suo giusto valore, si praticano tutte le torture del caso in carceri – lager, degni dei peggiori metodi della Gestapo e delle SS.
Di secondo acchito, poi, si ragiona e ci si rende conto che non si possono spalleggiare tiranni contro altri tiranni, anche se alcuni di questi sono, appaiono meno tiranni degli altri: un poco meno perché si sono ispirati ai princìpi del socialismo, hanno costruito società in cui la gratuità dei diritti fondamentali era veramente tale e gli studenti andavano a scuola senza pagare nulla, chiunque poteva curarsi senza dover fare assicurazioni private o mettere mano al portafoglio.
Quindi viene di nuovo il dubbio: ma è poi veramente corretto stare dalla parte della democrazia se questa, portata da chi se ne fa paladino da oltre due secoli, dopo aver sterminato le popolazioni native e aver tenuto nella schiavitù quelle fatte venire dall’Africa occidentale fino alla fine dell’800 (conservando un regime di apartheid non dichiarato per quasi tutto il ‘900…), finisce con l’essere un modello di negazione di diritti fondamentali garantiti da autocrati e oligarchi niente affatto sostenibili?
Sembra di stare ad un bivio in cui entrambe le strade sono sbagliate e allo stesso tempo giuste. Lo sono se si abbraccia la democrazia come modello ellenico riportato ai giorni nostri e ne si fa un gradino evolutivo dell’umanità e, al contempo, si valorizzano gli esperimenti sociali portati avanti in tanti paesi molto più poveri di quelli capitalisticamente e liberisticamente avanzati. Ma le strade diventano un errore se si guarda a chi rappresenta quel modello, occidentale e democratico da un lato, sociale e antimperialista dall’altro.
Nel gioco delle parti, delle contrapposizioni e della geopolitica mondiale, non esiste un luogo del pianeta dove si possa affermare che i valori fondamentali dell’essere umano siano pienamente rispettati. Il potere economico e quello politico si compenetrano e danno vita ad una serie di contraddizioni che pretendono di essere, tutte quante, necessarie al mutamento degli eventi: un ineluttabile viatico stretto attraverso cui passare per vivere meglio successivamente.
Ma, laddove la democrazia è stata “esportata“, ai regimi autocratici e oligarchici con una vena socialisteggiante si è sostituita tutta la vorace rampanticità del mercato: la logica della concorrenza è penetrata in ogni ambito sociale e ha messo gli uni contro gli altri, restaurando un classismo che, se non proprio superato, era stato per lo meno molto attenuato nei suoi effetti più violenti.
Dove hanno prevalso regimi dispotici, avversari dell’imperialismo occidentale, non si è verificato il meccanicistico automatismo di un recupero dei valori di uguaglianza, in netta opposizione all’individualismo egocentrico del capitale: questa volta la saldatura tra economia e politica è stata praticata guardando all’interesse privato come supporto fondamentale per lo sviluppo dei governi che via via salivano al potere e sostituivano esecutivi corrotti, fantocci ora di questa, ora di quella potenza emersa da tempo o emergente da pochi decenni.
La guerra che purtroppo si sta generando nell’Europa dell’Est si inserisce in queste contraddizioni del tutto evidenti per una sinistra comunista che non può schierarsi né – ovviamente – con l’imperialismo statunitense ed atlantista, ben conosciuto e riconoscibile nel dispiegarsi novecentesco del riassetto globale del mondo, né con la Russia di Putin che non è in nessun modo assimilabile a quel vagheggiato ricordo di una Unione Sovietica contraltare agli USA della Guerra fredda.
Per una alternativa di società veramente tale, già allora, prima del fatidico 1989, qualunque scelta si facesse era quella sbagliata: gli Stati Uniti non rappresentavano la democrazia sociale e l’Unione Sovietica non rappresentava quel comunismo libertario su cui poteva poggiare un vero sviluppo anticapitalista dei popoli, una presa di coscienza di classe e di voglia di emancipazione civile.
Anche allora schierarsi, per lo meno per un comunista antistalinista e luxemburghiano, voleva dire non schierarsi con le uniche opzioni che venivano date in pasto all’opinione pubblica, a quello che oggi si definirebbe il pensiero “mainstream”. L’unica alternativa era per l’appunto rappresentare una terza via: forse un po’ simile a quella dei “paesi non allineati” che, non per nulla, sono proprio quelli che hanno mediato tra la voracità del capitalismo che potremmo definire “privato” e quello “di Stato” dell’URSS.
Quindi, se mi domandate da che parte sto oggi, potrei cavarmela dicendovi che sto dalla parte della pace e dei popoli, di quelli che devono scappare, fuggire già ora, prima ancora che la guerra scoppi ufficialmente, perché attorno alle loro case si compatte da oltre un decennio, perché i bambini crescono con tanti e tali traumi che sono abituati non a non raccogliere le caramelle che cadono in terra ma a stare attenti a non toccare oggetti di metallo verdi, marroni e gialli nei boschi, nelle strade e nei campi che sono sul confine proprio del conflitto.
Se mi domandate da che parte sto, potrei cavarmela dicendo che sto dalla parte dell’antimperialismo contro gli USA e la NATO e anche dalla parte dell’antisovranismo contro la Russia degli oligarchi e di Putin, contro qualunque autocrate e nuovo zar.
Potrei, in effetti, risolvere la questione così, scegliendo di non scegliere tra occidente ed oriente, ma resterebbe comunque sempre inevasa la domanda fondamentale che nessuno pensa di farsi in questa gara tra filoamericani e filorussi dal sapore antico e moderno al tempo stesso: esiste una alternativa a questi due mondi uguali ed opposti? Esiste una terza via anche oggi, oltre la insopportabile retorica pacifista declamata anche da chi ha sempre votato tutte gli interventi militari in Parlamento?
Secondo me esiste, rimane la “cosa semplice che è difficile fare” però. E proprio per questa ragione, abbandonarla al suo destino sarebbe quella non-scelta che non ci possiamo permettere. Se non scegliamo di sostenere un nuovo impegno per un egualitarismo a tutto tondo, anticapitalista e antiliberista, a prevalere sarà una delle due opzioni che conosciamo e che non ci porteranno mai fuori dalle contraddizioni che non potranno mai superare.
Perché di quelle contraddizioni fanno parte per intero e se ne nutrono ogni giorno: con le borse, con i mercati, con la concorrenza, con lo sfruttamento e… ovviamente con le guerre.
MARCO SFERINI
22 febbraio 2022
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