Per chi si lascia andare, con spirito improvvisato da critico musicale, alla visione del Festival di Sanremo, quindi per chi come me lo guarda come uno spettacolo anche da irridere benevolmente come fa la Gialappa’s Band, l’ascolto delle canzoni è stato un piacevole scorrimento di emozioni a fasi alterne e con fortune alterne.
Fiorella Mannoia ed Ermal Meta. Due nomi soltanto balzano fuori dal resto della concorrenzialità musicale: la prima per profondità artistica, per espressione musicale della medesima legata ad una passione per la vita, per l’umanità, per i più deboli che si evince dalla voglia di comunicare la bellezza in mezzo a tanto orrore quotidiano; il secondo mi aveva colpito già l’anno scorso per quel viso intrigante, leggermente scapigliato, per una sonorità che vuole portare con sé temi importanti.
Ed, infatti, anche in questa edizione del festival, Ermal Meta porta un argomento scottante: la violenza fisica, personale. Ma la urla quasi sottovoce: eppure si fa sentire ed emerge rispetto alla consuetudine di altri artisti che invece calcano il palcoscenico dell’Ariston per mostrarsi, per non tramontare, per non essere dimenticati dalle case discografiche. Prima di tutto.
(m.s.)
foto di Marco Sferini