E’ l’ora dei riders, non quella dei loro sfruttatori

La corsa dei riders riparte. Questa volta su basi giuridiche, come tiene a precisare la magistratura, perché la regolarizzazione contrattuale di 60.000 lavoratori, sino ad oggi senza alcuna tutela...

La corsa dei riders riparte. Questa volta su basi giuridiche, come tiene a precisare la magistratura, perché la regolarizzazione contrattuale di 60.000 lavoratori, sino ad oggi senza alcuna tutela e gestiti dalla ingegneria telematica di un anonimo e impersonale algoritmo matematico, diventa un fatto non più cavillosamente eludibile dalle multinazionali del cibo da asporto e della consegna a domicilio.

E’ una notizia che ridà fiato ad un mondo del lavoro escluso dai diritti fondamentali per qualunque lavoratore: ma se sei considerato un semplice moderno schiavo, da utilizzare a seconda delle tue prestazione e non sulla base di regole uguali almeno per tutta una categoria (è davvero il caso di dirlo: si tratta del “minimo sindacale“), diviene quasi “normale” che una azienda si raffronti con te senza un rapporto diretto, senza la possibilità di avere orari fissati, paghe eque, giorni di malattia, il diritto alle ferie. Nulla di tutto questo per i riders, Fino ad oggi.

Anni di inchieste, di questionari e di raccolte anche di semplici chattate tra colleghi, sono serviti a costruire un chiaro quadro di ipersfruttamento, di un caporalato vero e proprio dai contorni inediti e, per questo, tutto da indagare sia a livello sindacale sia nel campo del diritto, della Legge, per colmare vuoti normativi e per inserire così tutti i ciclisti e motorizzati lavoratori del cibo da asporto in un quadro garantito, divenendo controparte nel rapporto di lavoro rispetto sia all’ingombrante inconsistenza dell’algoritmo, sia rispetto alla persona giuridicamente intesa dell’azienda che li ha impiegati fino ad ora.

Ciò significa anche un intervento diretto della magistratura nei confronti di Glovo, Uber Eats, Just Eat e Deliveroo per infondere un risarcimento pari a 733 milioni di euro di ammenda, oltre all’obbligo di assunzione degli ormai famosi 60.000 che, in pratica, corrispondono alla cifra complessiva di coloro che in Italia si sono adattati a fare i fattorini iperveloci per le vie delle città soprattutto in tempo di pandemia, quando la domanda di asporto è cresciuta e con essa il fatturato delle grandi aziende: se nel 2019 la richiesta di cibo a domicilio tramite le app era del 18% sul totale, nel 2020 questa percentuale è quasi raddoppiata.

Somiglia molto ai casi di Amazon e di altri comparti produttivi (o di mediazione degli scambi di merci, quindi di gestione di produzioni altrui, per conto terzi) che proprio grazie al Covid-19 hanno scalato le vette dei profitti, delle quotazioni di borsa senza dover fare il minimo sforzo di ammodernamento delle loro strutture, del loro “capitale costante“, e tanto meno di quel “capitale variabile” rappresentato dai salari.

Dietro alle belle pubblicità che mostrano lavoratori felici del cambiamento generato nella loro vita dal trasportare pacchi su lunghi tapis roulant, c’è un controllo costante e indefesso dei ritmi di lavoro: tutto è geolocalizzato, osservato con la meticolosa precisione dei satelliti. Dallo spostamento in azienda al percorso fatto dalla merce, che passa di mano in mano, da rullo a rullo, per finire nelle nostre case il prima possibile.

La competizione per il massimo profitto si fonda sullo sfruttamento sempre maggiore della forza-lavoro nel minore arco di tempo possibile: si tratta di una legge dello sviluppo capitalistico ormai antica, che Marx aveva individuato come uno dei motori principali dell’accumulazione dei profitti, poiché, se è vero che “il tempo è denaro” (e i riders lo sanno molto bene…), è altrettanto veritiero il fatto che il minor tempo è sempre maggior denaro per il capitalista, per chi alla fine spartisce i dividenti azionari di una impresa. Questo rapporto ineguale tra tempi per l’appunto diversi, ma che riguardano lavoratori uguali fra loro e diversi nel rapporto tra loro stessi e l’azienda, è interessante da sottolineare e da indagare con categorie antiche che, come si può ben vedere, sono sempre attuali.

Un’ora di pedalata di un rider, pagato a consegna, quindi a chilometraggio, recensito positivamente o negativamente dal cliente, incentivato a ricevere nuove chiamate se produttivo ed obliato invece, con un carico di senso di colpa non indifferente, se decide di non accettare una consegna (poco importa se per noncuranza o se per impossibilità oggettiva…), è sempre enormemente diversa dall’ora dell’imprenditore che gestisce l’azienda. L’algoritmo non ne ha direttamente colpa: che responsabilità oggettiva ha un sistema telematico che è una forma di esasperante alienazione inventata grazie a tecnologie che invece dovrebbero migliorare i rapporti tra impresa e mondo del lavoro? Nessuna, se non quella di farti sentire più solo del previsto.

Proprio guardando alla relazione tra lavoratore e tempo, tra azienda e tempo, sarebbe dovuto essere clamorosamente evidente il livello di sfruttamento ai limiti del vero e proprio neocaporalato schiavistico di moderna generazione. Nessun inquadramento contrattuale, ma solo l’attribuzione di una generica qualifica di “lavoratore autonomo” per il rider.

Se l’italiano non è divenuto anch’esso una variabile dipendente dal mercato, “autonomo” significa capace, in grado e in forza di gestire da solo il proprio lavoro. Ma per i riders non è mai stato così: sono autonomi soltanto nel decidere se accettare o meno di essere pagati meno, rifiutando delle corse magari dopo sette, otto ore di pedalate pericolosissime tra le fila di auto, le rotaie insidiose dei tram, imboccando sensi di marcia vietati, finendo sotto qualche autobus…

Tutto questo ai grandi imprenditori del “delivery food” non accade. E pretendono pure, nonostante le indagini svolte e le decisioni della magistratura, di affermare che per quanto li riguarda tutto si è svolto nel pieno della garanzia dei diritti. Certo: di quelli che loro decidevano potessero essere tali. Quindi pochi, molto pochi. Quasi inesistenti.

Il tempo è da sempre un gran interrogativo per filosofi, storici, scienziati. Lo era anche per gli economisti prima che Marx lo legasse al suo rapporto inscindibile con il plusvalore, con i ritmi produttivi e persino con la circolazione delle merci. La velocità del nostro mondo non smentisce il marxismo, nemmeno in questo caso. Anzi, lo rende una chiave di analisi fondamentale proprio per i settori di sfruttamento massimo della forza-lavoro. Dove i diritti sono chimere, dove non arriva nessun sindacato, dove arriva un giudice che sa vedere anche al buio.

MARCO SFERINI

25 febbraio 2021

foto: screenshot

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