…e la tribuna lasciò il posto…

Al termine della giornata di voto per l’elezione del nuovo (si fa per dire) segretario nazionale del Partito Democratico, sulla terrazza del Nazareno viene cambiato l’allestimento del palco. La...

Al termine della giornata di voto per l’elezione del nuovo (si fa per dire) segretario nazionale del Partito Democratico, sulla terrazza del Nazareno viene cambiato l’allestimento del palco. La tribunetta prevista all’inizio lascia il posto alla posa plastica di Matteo Renzi, con microfono in mano, che improvvisa un piccolo comizio: è per le televisioni, ovviamente, più che per i fedelissimi presenti.
Ringraziamenti di rito e alcune stoccate politiche ai Cinquestelle (mai direttamente nominati, come usa fare l’avversario che si sente forte e vuole dimostrarlo sprezzando l’avversario) e poi ciò che più mi ha fatto precipitare nel recente passato post-renziano appena tornato presente: le magnifiche sorti dell’Italia descritte da chi aspira a tornare a Palazzo Chigi quanto prima possibile.
Di tutto il discorso, questa è la parte più evidente che si sia percepita come elemento dirimente, come centro dell’azione della nuova segreteria che Renzi andrà a comporre nei prossimi giorni insieme al suo vice, ministro Martina.
Non sappiamo quando andremo a votare“, ha detto Renzi. Forse un lapsus, forse una frase sfuggita nella foga della grande vittoria alle primarie del PD. In realtà si sa che si andrà a votare alla scadenza naturale della legislatura, a meno che qualche evento non la pregiudichi e, quindi, si anticipi la data del ritorno alle urne per l’elezione del nuovo Parlamento.
Perché è bene ricordarlo: la controriforma che il governo voleva far passare il 4 dicembre scorso è naufragata sotto il pesante risultato del voto popolare; dunque non ci troviamo in una repubblica semi-presidenziale o anche soltanto in un regime dove al governo spetta un ruolo preminente rispetto a quello del Parlamento.
E la maiuscola il Parlamento deve poterla meritare sempre, come centro delle istituzioni democratiche, come controllore delle azioni del governo, al quale la lettera minuscola va sempre appropriatamente messa per evitare che si consideri l’esecutivo un organo che può decidere a prescindere dalle discussioni parlamentari e, quindi, se tutto funzionasse secondo Costituzione, tralasciando la volontà popolare espressa nei propri rappresentanti.
Sappiamo tutti che non è così e che il ritorno alla democrazia vera passa anche e soprattutto attraverso una legge elettorale proporzionale che deve creare disagio tra le formazioni politiche odierne, perché deve scardinarne le incrostazioni e le sedimentazioni di potere e di aggancio al medesimo che si sono andate sommando nel corso di questi decenni.
Proprio dal confronto nasce l’antidoto al renzismo, al grillismo e alle destre di vecchio stampo che, tutte e tre in forme differenti, vorrebbero non “semplificare” l’ordinamento repubblicano ma gestirlo senza tanti vincoli, senza quei lacci e lacciuoli che sono i contrappesi di un equilibrio che ha garantito all’Italia, in periodi bui e meno bui, di rimanere comunque un Paese fondamentalmente rispettoso tanto della dialettica sociale quanto di quella politica.
Purtroppo la formalità istituzionale non basta a garantire quei diritti che sono stati distrutti nel tempo con la riduzione del lavoro ad una variabile dipendente dalla produttività, agli sbalzi del mercato, ai dividenti degli azionisti.
Privatizzazioni, precarietà e lavoro con i voucher: ecco i grandi risultati dei governi “riformatori”.
Ciò che oggi Renzi promette è di continuare a lavorare per un Paese che lui descrive splendidamente, votato ad alti destini di mazziniana memoria ma che farebbero impallidire il povero apostolo repubblicano dell’unità d’Italia.
Ci si aspettava la vittoria di Renzi. E la poca forza dei suoi avversari ha aiutato l’ex presidente del Consiglio ad avere un risultato molto ampio.
Ma si tratta comunque di un fatto interno ad un partito, reso esterno dal meccanismo americaneggiante delle “primarie”: un’altro elemento di distorsione della politica italiana. Pare che scegliere i propri dirigenti in base all’adesione mediante una tessera, quindi con l’impegno della partecipazione attiva secondo precise idee, non sia più di moda da molto.
I congressi si sono trasformati in gazebo sparsi per l’Italia: si entra, si paga due euro, si sottoscrive l’impegno a condividere il programma del PD e a votarlo alle elezioni, e si sceglie il “proprio” segretario.
Ma queste primarie del Partito democratico sono state più che altro un rito stanco, una ripetizione del “già visto”, oltre tutto con un concorrente già vincitore e già capo del governo italiano.
Ma serviva, tuttavia, una parvenza di legittimazione popolare. Ora questo elemento c’è: è un dato di fatto. E quindi Renzi può riprendersi il PD e traghettarlo ad un dopo-Gentiloni, magari meno traumatico del “dopo-Letta”.
Dunque, l’unica sorpresa della giornata delle primarie, nella serata romana sul tetto del Nazareno, è stata quella tribuna con il simbolo del PD. Quella povera tribuna tolta all’ultimo momento. Troppo formale. Meglio presentarsi con più sportività, senza cattedre o leggii davanti. Il rapporto deve essere “terra-terra”. Ed in effetti, in un certo senso, dal discorso di Renzi, lo è stato.

MARCO SFERINI

2 maggio 2017

foto tratta da Pixabay

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