Qualche settimana fa sono andato al cinema a vedere “Fai bei sogni” di Marco Bellocchio, ispirato al libro di Massimo Gramellini. Il tema trattato era molto attrattivo per me: il rapporto figlio – genitori e viceversa. Ma, prima di tutto, quell’asse: dal figlio verso i genitori.
Devo dire che ho avuto una infanzia fin troppo pacifica, tranquilla, ricca di affetto e quando ho ricevuto qualche schiaffo è accaduto perché avevo lasciato d’impeto la mano di mio padre e avevo magari attraversato la strada senza badare alle macchine e ai motorini.
A scuola ero discretamente bravo, molto omologato nei dettami quasi borghesi della buona educazione, del rispetto verso l’autorità della maestra o dei professori. Insomma, non ero un Lucignolo ma nemmeno ero un Pinocchio. Ero una specie di Enrico Bottini del “Cuore” o, forse, viste le mie dimensioni, un Garrone.
Ma non avevo antipatia per i Franti della situazione anche se mi canzonavano o se ero bersaglio di qualche loro scherzo anche pesante da sopportare.
Vedendo “Fai bei sogni”, ho un po’ riconosciuto non tanto me stesso nel bimbo che affronta la morte della madre, ma la solitudine che ogni tanto mi prende in forma di depressione quando penso al futuro che, inevitabilmente, è fatto di abbandoni: ci si lascia dietro molte caducità, molti cadaveri, molti addii se si sopravvive ad amici, parenti e genitori.
Se si muore a vent’anni per un incidente stradale, magari si continuerà ad essere cari agli dei, ma non si proverà mai l’angoscia di veder cambiare il mondo intorno a sé e di assistere al parto di un mondo nuovo che ci accoglie ogni giorno senza che noi ce ne accorgiamo.
Ciò che rovina e viene giù intorno a noi fa più rumore di ciò che ci si costruisce intorno. E’ un po’ il proverbio brasiliano sulle foreste: un albero che cade fa più rumore di una foresta che nasce e cresce.
Per questo, seguendo la scia dei miei sentimenti, e provando a comprendere – nel senso di ricercare un significato anche sociologico – la vicenda dei ragazzi che hanno collaborato per uccidere i genitori di uno dei due a colpi d’ascia, nel silenzio della notte, senza che il cane di casa emettesse un solo latrato, mi sono imbattuto in una sorta di confronto tra la mia dedizione allo stile borghese di attaccamento al nucleo familiare, persino eccessivo a volte, e questo risentimento, odio o frustrazione che fosse del figlio della coppia. Una insieme di sentimenti avversi che lo ha portato a desiderare la morte dei genitori senza considerare l’ipotesi di rimanere da solo ad affrontare il mondo. E la giustizia.
Un ennesimo episodio di cronaca nerissima di cui le televisioni si ciberanno a gran volontà e ha fatto bene Fiorello, in questo senso, a chiamare alla riflessione sul contenimento di questa espansione mediatica del truculento, della ferocia, della morte enfatizzata anche senza volontà, presa come elemento da colpo di scena continuo.
Ciò che fa ascolto, quindi incrementa i guadagni attraverso gli sponsor, è anche l’attuale amante di questo o quell’attore o attrice, ma di più ancora lo sono le tragedie, le sofferenze: della felicità sembra non importi niente a nessuno, salvo alle trasmissioni delle reti cattoliche dove incontri quei sorrisi piegati alla devozione che sfociano in immagini sempre provenienti da conventi, da Lourdes o da Pietralcina.
Spazio alla felicità laica, alla bellezza della vita, priva di ipotesi extracorporali e ultraterrana ve ne è molto poco tanto sui giornali quanto sulle televisioni e pure anche su Internet.
Perché si uccida, e che rapporto vi sia tra assassino e assassinato, è un quesito vecchio più dell’origine dell’universo medesimo. Non esiste una risposta che sia la verità. Esistono motivazioni che conducono all’omicidio e che sono, comunque, sempre un disagio profondo: la violenza cessa d’essere espressione di un disagio quando è ispirazione di sadismo, di piacere dell’uccidere.
Compiacersi di uccidere animali o esseri umani è la stessa cosa: cambia forse il tasso di sadismo, visto che uccidere i propri simili è considerato reato, mentre magari uccidere gli animali per gioco (e non per fame o per soddisfazione dell’onnivorismo umano) è considerato uno sport, addirittura…
Le contraddizioni che viviamo sono milioni, nemmeno migliaia… milioni… E sono tutte intrinseche alla disumanità dell’umano verso sé stesso e verso il mondo che lo circonda.
Per questo, quando puntiamo il dito accusatore contro due ragazzi che hanno compiuto un gesto orribile, terrificante, imperdonabile, dovremmo anche avere presente che forse una certa assuefazione al ricorso alla violenza l’hanno ricevuta dalle ripetute ispirazioni che quotidianamente provengono loro da mezzi di comunicazione che fanno della morte una esaltazione di supereroismo, di virilità, di audacia. Una traduzione in positivo di qualcosa che non genera mai nulla ma soltanto distrugge, annienta, annichilisce.
Qualcuno potrà obiettare che la storia del mondo è un cammino di olocausti: è sacrosantamente vero. Ma la violenza contestualizzata dovrebbe essere di monito alla non ripetizione degli errori del passato. Per questo dobbiamo condannare senza se e senza ma chi rompe le targhe di Giacomo Matteotti a Roma o chi, a Vicenza, su basi neofasciste inneggia al processo per i partigiani e alla messa al bando per l’ANPI.
Esiste una violenza di massa che è resistenza ad altra violenza. Se così non fosse, non potremmo dire di vivere liberi, ma di aver sostituito ad una tirannia un’altra tirannia.
Poi potremmo ancora discutere del tasso di libertà e della stessa qualità della libertà in cui viviamo. Ma a noi stessi, alla storia e al presente facciamo un processo per volta. Per capire, per non condannare sempre, per distinguere l’errore dall’errante. Lo diceva un papa, non un comunista. Ma possiamo ripeterlo tutti: i grandi pensieri appartengono all’umanità, ne sono patrimonio universale, da tutelare e preservare.
MARCO SFERINI
14 gennaio 2017
foto tratta da Pixabay