Due popoli vittime del sionismo e del fanatismo religioso

Con troppa fretta, dopo la morte di Rabin, dopo quella di Arafat, si è messa da parte la locuzione che giganteggiava nel corso degli anni in cui il processo...

Con troppa fretta, dopo la morte di Rabin, dopo quella di Arafat, si è messa da parte la locuzione che giganteggiava nel corso degli anni in cui il processo di pace tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese pareva fare timidi, ma progressivi passi avanti. Due popoli, due Stati.

Ad un certo momento si è deciso, prescindendo dalle circostanze che, pure, erano mutate notevolmente nel giro di pochissimo tempo, che sarebbe stato impossibile un giorno poter segnalare sulle carte geopolitiche la presenza, in quel fazzoletto di terra tra il Giordano e il Mar Mediterraneo, uno accanto all’altro di Israele e della Palestina come Stati indipendenti, sovrani e magari federati da progetti di interrelazione sociale, economica, civile, persino internazionale.

Dalla morte dei due leader che avevano, seppure faticosamente, limato le contraddizioni reciprocamente interne ai due schieramenti e ai due popoli, per arrivare ad un formale riconoscimento vicendevole davanti alla comunità internazionale e con la supervisione più degli Stati Uniti d’America che dell’ONU, la storia dell’avvicinamento delle posizioni distanti si è interrotta e, peggio ancora, si è capovolta.

Il dialogo, il confronto pure aspro, e non privo di cadute, cedimenti e lunghi periodi di interruzioni a volte silenziose, altre volte segnate da stragi e da provocazioni messe in atto da Israele contro il popolo dei Territori occupati illegalmente dal 1967, violando due risoluzioni delle Nazioni Unite, quel dialogo e quel confronto sono tornati ad essere attacco, insulto, digrignamento di due due volti che nella radicalizzazione delle posizioni ha cercato il consenso popolare per forze politiche e militari che, altrimenti, non sarebbero salite al potere.

Da un lato Benjamin Netanyahu con quella destra che moltissimi in Israele non fanno mistero di rasentare la fisionomia autoritaria e repressiva tipica di qualunque fascismo; dall’altro Hamas che dell’integralismo religioso ha fatto una colonna portante di una nuova stagione indipendentista palestinese che, fino ad allora, fino al principio degli anni 2000, era sempre stata caratterizzata da un tratto profondamente laico, pur difendendo le credenze, le tradizioni e le abitudini bimillenarie di un popolo arabo.

Nel giro di pochi decenni, la lotta per l’affermazione dei diritti dei palestinesi a vivere liberi, sulla terra che gli è stata sottratta progressivamente dalla Nakba in avanti, pezzo dopo pezzo, dalla Galilea al Negev, dalla Cisgiordania a Gaza, si è venuta involvendo in una contrapposizione netta, in cui il fronte indipendentista si è frammentato e diviso.

Da un lato Hamas e il governo jihadista imposto nella Striscia costiera confinante con l’Egitto. Dall’altro ciò che è rimasto dell’ANP e della sua ufficiale rappresentanza di quello “Stato di Palestina” che, nonostante tutto, è attualmente membro osservatore all’Assemblea generale dell’ONU.

Noi oggi pensiamo, come cosiddetta “civiltà occidentale” di rispondere ad una sola interpretazione dei fatti mediorientali: quella che prende a pretesto il dettame della democrazia come elemento congiunturale e unificante tra i nostri modelli di Stato, di società e quello israeliano. Un modello che è difficile definire, in quanto tale, una vera e propria democrazia. Certo, ha un parlamento come l’Italia, ci sono maggioranza e opposizione, c’è un rapporto dialettico tra le parti sociali, politiche, tra i soggetti economici di un paese pieno di contraddizioni.

Ma se si guarda indietro, se si osserva la storia di Israele, dalla sua nascita in poi, non è così difficile – purtroppo – constatare che esso ha rappresentato e rappresenta una vera e propria “anomalia” nel Medio Oriente.

Ne è prova il fatto che, da sempre, gli ebrei che sono migrati in Palestina dopo la fine della Seconda guerra mondiale, hanno avvertito come endemica una condizione di “assedio” da parte dei popoli arabi limitrofi. Ne è prova il fato che le prime comunità israelitiche si siano insediate nella regione di Giaffa, lungo la costa e non nell’interno a ridosso dei luoghi pure storici tanto per l’ebraismo quanto per gli arabi (e per i cristiani).

Non si può fare il processo alla Storia, e non vi è qui nemmeno la lontana intenzione di volerlo intentare, ma per capire come si sia potuti arrivare oggi a tanta radicalizzazione, a tanta spietatezza in un non-confronto che è sfociato in una ennesima guerra criminale, serve rifare il percorso a ritroso.

Le cause di tutto quello che oggi è sotto i nostri occhi, affondano in una presunzione etno-socio-politica che origina dal sionismo, dalla pretesa superiorità del presenza ebraica in Palestina, di una sorta di diritto divino alla predestinazione rispetto agli altri popoli e, quindi, ad un nazionalismo molto più ostinato e radicato di altri.

La questione israelo-palestinese nasce nel momento in cui viene esclusa qualunque possibilità di realizzare il progetto del mandato dell’ONU nel 1947, della concretizzazione di un piano di spartizione in cui Stato ebraico e Stato arabo avrebbero potuto convivere.

Anzitutto è un problema di indipendenza nazionale, tanto quanto lo è quello dei curdi divisi tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Anzitutto, appena a ridosso degli effetti nefasti della tragedia mondiale di una guerra che ha fatto della razzialità uno dei fulcri portanti del moderno imperialismo e dell’aggressione di governi e popoli verso altri Stati legittimi, sovrani ed indipendenti, si sviluppa una vicendevole ispirazione anche sociale, un tentativo di condivisione delle esperienze.

La questione religiosa si intromette nel dibattito e nella concatenazione velocissima degli accadimenti, quando il nascente Stato di Israele inizia ad allargarsi verso i territori arabi e a puntare alla città delle tre religioni monoteiste. Gerusalemme, ancora una volta nella Storia dell’umanità, diventa il centro di uno scontro che coinvolge, adesso, non più soltanto l’Europa, ma l’intero mondo.

Tuttavia, il carattere laico della lotta palestinese viene salvaguardato e portato avanti dall’OLP per decenni. La stessa Autorità Nazionale Palestinese farà del repubblicanesimo democratico, parlamentare e, appunto, laico, l’asse portante di una costituzione che, come è abbastanza facile intuire, non potrà mai essere veramente applicata.

A questo punto, sarà la destra israeliana, quella marcatamente segnata da tratti di integralismo sionista, a prevalere nei rapporti di forza tra i partiti della Knesset e, con l’irrompere sulla scena del terrorismo jihadista, finirà per trovare una ragione d’essere anche innanzi al fronte palestinese.

Hamas nasce dalla “fratellanza musulmana“, scacciata dall’Egitto, riversatasi nella Striscia di Gaza. Contestualizzando e riportando nei giusti termini della recentissima storia del Medio Oriente la ultrasessantenale vicenda del conflitto tra Tel Aviv, Ramallah e Gaza, riesce sempre più evidente la comprensione (ma non la giustificazione) dell’allargamento delle maglie di una guerra santa che fazioni come quella di Yahya Sinwar hanno imposto ad una parte del popolo palestinese.

Qualcuno si pone mai, nel nostro democratico e perbenista Occidente, la questione del rapporto tra Hamas e la popolazione di Gaza? Nessuno ha mai ritenuto di dover considerare che esista ancora una larga fetta di società palestinese che mal digerisce la traduzione in chiave islamista del messaggio indipendentista un tempo dell’OLP e dell’ANP? La tentazione di semplificare è, quasi sempre, legata ad un finto moralismo che divide draconianamente da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. E’ una classificazione moralistica di un enorme questione che non è riconducibile a principi esclusivamente etici.

Israele, in oltre sessant’anni di occupazione dei territori rimasti ai palestinesi, ha perpetrato ogni sorta di sopruso, di angheria, di crudeltà e di vero e proprio terrore nei confronti dei civili.

Si potrebbe fare una cronistoria di massacri da Sabra e Chatila fino all’operazione “Piombo fuso” di non molto tempo fa. I proiettili e i missili al fosforo bianco, sparati contro la popolazione inerme di Gaza, dentro quella che un po’ per tutti – anche per i più fedeli ammiratori della “democrazia” israeliana – è la “prigione a cielo aperto” per antonomasia; la prigionia criminale di Marwan Barghouti, le tante violenze e torture nelle carceri…

Ed ancora, la colonizzazione che ha strappato terre, acqua, risorse prettamente naturali e fondamentali per sopravvivere (ché vivere è davvero ben altra cosa…), che ha ispirato senza soluzione di continuità l’erezione di muraglie di fili spinati prima e di veri e propri colossi di cemento poi, hanno esasperato la condizione di invivibilità dell’esistenza per un intero popolo che non ha più avuto alcun diritto sulla sua terra. Quello di formarsi una famiglia, di lavorare, di studiare, di crearsi un futuro in assenza totale di un presente.

E quando ti mancano le fondamenta umane, civili e sociali per poter vivere come comunità, ti vengono allo stesso tempo meno quelle che erano le pur minime aspirazioni cui eri legato. Mentre dall’altra parte, gli israeliani, hanno vissuto secondo i canoni occidentali, pensandosi come una protesi delle democrazie europee ed americane, di quello che enfaticamente viene celebrato come “il mondo libero“.

Tutto il resto del globo è, di conseguenza, un mondo non libero, solcato da dittature, tirannie, oligarchie e stili di vita che non sono consoni ad un moderno liberalismo convertitosi al liberismo più spietato.

Se, da un lato, i palestinesi facevano (e fanno) la fila ai posti di blocco, se sono prigionieri entro i loro villaggi, se sono privi di qualunque autonomia economica (basta vedere l’assedio di queste ore a Gaza e l’interruzione criminale di ogni servizio essenziale per il mantenimento in vita della popolazione: luce, gas, rifornimento di beni alimentari, di medicinali…).

Dall’altro gli israeliani costruivano accanto, dentro o sotto ad ogni loro appartamento un bunker in cemento armato, dimostrazione plastica della precarietà di esistenze votate alla venerazione dell’esercito come parte integrante e imprescindibile del vivere quotidiano, come moderno Moloch a cui guardare per poter sperare nella intangibilità dei confini tanto dello Stato ebraico quanto delle singole esistenze. Un mito che è stato sfatato dall’azione di Hamas, un vero e proprio crimine contro il popolo israeliano, vittima come quello palestinese questa volta.

Vittima della intransigenza sionista del proprio governo. Vittima del fanatismo assassino di Hamas. Ed i palestinesi? Non smettono mai di essere vittime. Loro addirittura della Storia: del recente passato e del presente. Senza una briciola di futuro tra le mani, con una terra sotto ai piedi che non gli appartiene, con un’aria irrespirabile e solo macerie intorno.

Macerie e morti. Hamas, Netanyahu e il tanto democratico Occidente li hanno sulle loro incoscienze. Per ora, quindi, pesano sul niente.

MARCO SFERINI

10 ottobre 2023

foto: screenshot tv

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