Il murales comparso al mattino presto a Roma, quello raffigurante Matteo Salvini e Luigi Di Maio stretti in un appassionato bacio, è stato sin dalle prime ore della giornata la preveggente migliore sintesi di ciò che sarebbe avvenuto poi nelle tarde ore del pomeriggio.
Poi ne compare un altro di murales: raffigura Giorgia Meloni che tiene tra le braccia un bimbo la cui pigmentazione fa capire che non si tratta di un italiano.
E’ certamente anche satira politica: il messaggio è chiaro. Ma io vi leggo anche la voglia di comunicare altro, di affermare che se si rimane umani si può andare oltre qualunque odio e qualunque pregiudizio. Ce lo dicono quei cuori disegnati dietro ai soggetti dipinti: sono messi lì come se fossero lo sfondo del tutto.
La mia può essere una lettura deformata da esperienze personali e, del resto, non potrebbe che essere altrimenti.
Ma proprio questo pensiero mi è venuto in mente guardando i due murales che, lo si voglia o meno, restano la migliore sintesi politica della giornata appena trascorsa. Le voci se le porta il vento e la calunnia, poi, dice un antico adagio è un venticello, ma che Lega e Movimento 5 Stelle si approcciassero da giorni, come due cagnolini che si annusano per conoscersi meglio, era il segreto di Pulcinella.
Del resto non è poi così impertinentemente strano che le due forze politiche che hanno assorbito il maggior numero di consensi da un elettorato in fuga da altri partiti siano poi chiamate ad assumere un ruolo, per così dire, egemone nella controversa partita dell’elezione dei presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
Semmai, la notizia vera e propria è la crepa che si è aperta in questo frangente nel Centrodestra ex-berlusconiano a guida salviniana: la mossa leghista, il voto sulla senatrice di Forza Italia, ha spiazzato persino il Cavaliere che ha risposto con un irrigidimento sul nome di Romani che significa solo disperazione politica nel mantenere una posizione persa.
Un po’ come i generali chiamati a difendere i quartieri governativi di Berlino mentre l’Armata Rossa era a pochi chilometri dal Bunker di Hitler. Una impresa impossibile, disperata. Weidling e Monke si trovarono il primo in preda ad un attacco di nervi e il secondo a fronteggiare il fastidioso ciondolare della milizia popolare di Goebbels proprio sulla linea di tiro tra le residue truppe del Reich e i russi.
Alla fine tocca cedere. Magari proponendo un nome terzo, per non sfigurare, per apparire democraticamente in intesa con gli alleati.
La storia si ripete sempre un poco; certamente dà molti esempi da non imitare e, tuttavia, proprio perché si ripete, gli esempi quasi mai vengono colti.
L’elezione delle due presidenze delle Camere del nostro Parlamento sono diventate ciò che ci si aspettava da giorni: una cartina di tornasole delle future alleanze governative: i primi passi di abboccamenti che il murales romano ha così ben riassunto urbi et orbi per finire cancellato repentinamente appena due ore dopo essere stato scoperto.
Quando la “street art” fa irriverentemente paura, scatta l’efficienza amministrativa: non sia mai che si sbeffeggino coloro che rischiano di diventare presidenti del Consiglio dei ministri. Non in una giornata come quella appena passata dove gli equilibri sono delicatissimi, dove tutto si regge sul filo di lana e dove ognuno aspetta il tentennamento dell’altro per fare la mossa che metta tutti in difficoltà traendone il maggiore vantaggio.
Siamo sicuri che questa sia la vera essenza della democrazia costituzionale? Siamo sicuri che il parlamentarismo sia proprio questo evitare di cadere nell’alveo del compromesso necessario che, invece, è volenti o nolenti uno dei metodi di raggiungimento proprio del regime democratico?
Certezze non ve ne sono di alcun tipo: del resto, la prima giornata è un fiume di schede bianche. Chiedono tempo le forze politiche. Cercano di rimandare le votazioni successive. Lo chiedono soprattutto dal Centrodestra. Mentre il PD è il grande silente e assente. Mentre i Cinquestelle stanno lì, seduti sugli scranni più alti a vedere la vecchia compagine berlusconiana lacerarsi in vista del potere: l’uovo oggi. Mentre la gallina di domani è un obiettivo che deve ancora venire, quindi meglio intanto rafforzare la cosiddetta “leadership”, mostrare al mondo che il tempo del berlusconismo è finito e che si apre una nuova era.
Alla fine, nella seconda giornata, quella di oggi, i presidenti vengono eletti, gli equilibri discontinui si ricompongono e il Centrodestra prova a ricompattarsi, a salvare capra e cavoli: la Lega accetta di votare Elisabetta Alberti Casellati, i Cinquestelle la seguono in cambio dell’appoggio a Montecitorio sul nome di Roberto Fico che, infatti, alla pari viene eletto successore di Laura Boldrini.
Così, di piccolo, medio e anche lungo percorso tutto tiene: le destre si ritrovano nel comune scopo di non depotenziarsi vicendevolmente. Forza Italia è soddisfatta per la Presidente del Senato della Repubblica, la Lega per il rapporto duplice con i vecchi e i nuovi probabili alleati di un futuro governo ed, infine, i grillini che ottengono la presidenza della Camera e quindi il ruolo primario ad oggi nei giochi parlamentari.
Intelligente discorso quello di Roberto Fico. Forse anche un po ecumenico, ma apre citando le Fosse Ardeatine, sottolinea come fondamentale la centralità del Parlamento nella Repubblica a differenza di quel PD che voleva ridurlo ad appendice del governo con la controriforma Renzi-Boschi e chiude con il refrain pentastellato sull’onestà. Contenti tutti, dunque. O quasi. Ma l’importante è che l’apparenza inganni e che la democrazia apparente inganni ancora di più.
Tutto ciò avviene nel Palazzo. Forse lontano da quel mondo “reale” che poi è lì espresso da un voto di appena venti giorni fa. Non sono separabili. Eppure il silenzio della sinistra è assordante come la sua assenza materiale. Lo è tanto da essere impercettibile, ovviamente, per tutti gli organi di informazione.
Il palazzo è lontano. Troppo lontano: è un simbolo poco popolare. Soprattutto se chi vuole rappresentare il popolo non è riuscito ad entrarci.
Intorno prevale non la voglia di uguaglianza ma di differenza come elemento rimarchevole di una società che nessuno vuole eguale ma che nemmeno vuole differente nelle sue molteplici espressioni. Un paradosso. Eppure l’attualità economica vive di paradossi; così quella politica.
I paradossi si nutrono di ingiustizia e viceversa…
Mentre le schede bianche scorrono tra le mani dei presidenti provvisori delle due alte Assemblee legislative dello Stato italiano, a Torino muore Beauty. Il suo nome vuol dire “bellezza”. Muore Beauty, a soli 31 anni. Ha appena partorito un bimbo, Israel. Il padre se lo stringe al petto: è l’abbraccio “del canguro”, un rito difensivo, protettivo per far percepire al piccolo che lui sarà madre e padre allo stesso tempo.
Muore Beauty, perché ha un fibroma, perché è stata respinta alla frontiera francese e ributtata in Italia come se fosse un sacco vuoto che galleggia nell’aria.
La gendarmeria francese l’ha lasciata alla stazione di Bardonecchia il 9 febbraio scorso. Senza pietà. Era incinta di sei mesi: l’hanno fatta scendere dal pullman su cui viaggiava per raggiungere la sorella. L’hanno lasciata al freddo, affannata e priva di respiro per quel fibroma causatole da una trasfusione sbagliata in Nigeria.
Veniva dall’Africa, non dall’America nonostante il suo nome potesse far pensare ad un’origine anglosassone o yankee.
Forse può essere politicamente poco corretto accostare questa storia disumana alla giornata politica fatta di schede bianche: che c’entra questo fatto – dirà qualcuno – con ciò che avviene a Roma.
C’entra. Perché chi si appresta a governare il Paese deve rispondere ad una domanda in questo caso: avrebbe accolto o avrebbe respinto Beauty?
E’ dalla risposta che si comprende dove va la nostra Italia. Ma già lo sappiamo: senza voglia di uguaglianza non c’è sinistra e senza sinistra non c’è crescita di critica sociale e di avanzamento dei diritti.
Come si diceva un tempo… “Socialismo o barbarie”. Avete capito dove siamo?
MARCO SFERINI
foto tratta da Wikimedia Commons