C’è stata, almeno fino alla fine della presidenza di Joe Biden, una vera e propria “guerra russo-americana” nel centro dell’Europa, sul terreno ucraino, a metà tra Est ed Ovest. La NATO ne è stata il braccio armato, il canale di transito di un riarmo a tutto spiano e l’estremo sacrificio della lotta fra questi due imperialismi è stato fatto pagare, sostanzialmente, al popolo di cui Volodymyr Zelens’kyj è presidente in qualità oggettiva di plenipotenziario oggi, più che dell’asse nord-atlantico ed euro-americano, della sola Unione Europea rimasta con le armi in una mano e un pugno di mosche nell’altra.
Se non si parte da queste premesse e, ostinatamente, si continua a figurare il conflitto come una lotta tra il bene da una parte (l’Occidente) e il male dall’altra (la Russia), si finisce con il travisare tutto ciò che è stata la politica estera dei singoli attori della guerra e, nello specifico, di una Europa priva di una spina dorsale in questo frangente, incapace di arrivare a sintesi proprio nel momento in cui alle sue porte, nella zona cuscinetto ed intercapedine tra i due blocchi in lotta, si è aperta una crepa difficilmente sanabile se non con l’abbandono dei piani USA-NATO da un lato e dell’avanzamento putiniano dall’altro.
La vittoria di un conservatore spregiudicato come Trump ha sconvolto i piani tanto interni della grande Repubblica stellata, quanto quelli della geopolitica imbastita nei quattro anni di presidenza del duo Biden-Harris. Non c’è dubbio che, se avesse vinto la ex vicepresidente democratica, non si sarebbe nemmeno fatto cenno ad un inizio di trattative per mettere fine ad una guerra che, per il magnate di estremissima destra, è una iattura. Nessun intento umanitario, sia ben chiaro. A The Donald non interessano minimamente conteggi di vittime, squilibri tra Est ed Ovest in seno al Vecchio Continente.
Quel che gli preme è orientare le dinamiche imperialiste americane altrove, lasciando libero Putin di comportarsi come meglio crede, ora e nel prossimo futuro, nei confronti di un aggregato politico-economico molto poco strutturato, davvero incapace di costruire un fronte unico tanto contro l’espansione della NATO quanto contro quella della Russia. Già, la questione dell’Alleanza atlantica è dirimente in questo quadro: la Commissione von der Leyen e un po’ tutte le forze politiche dell’Europarlamento, ad eccezione del gruppo di “The Left” e dell'”European Left Party“, sostengono il ruolo fondamentale della NATO, l’aumento dei fondi nazionali all’Alleanza che, tuttavia, è al di sotto – nelle richieste di Rutte – a quel 5% proclamato a gran voce da Trump.
In momenti cruciali della storia dell’umanità, proprio come quello in cui viviamo almeno da una decina di anni a questa parte, i grandi mutamenti, ad iniziare dalle implementazioni tecnologiche, passando per i rivolgimenti naturali e il cambiamento strutturale di una economia globalizzata ma multipolare nell’accentramento delle grandi, immense risorse di poche enormi industrie e di altrettanto pochi padroni del vapore, la risposta non è sempre coerente con quelli che dovrebbero essere gli interessi sociali, il bene comune e pubblico. Tutt’altro.
Nonostante le destre promettano la difesa dei più deboli e nonostante altrettanto facciano le forze socialdemocratiche o liberalsocialiste di mezzo mondo, le contraddizioni capitalistiche si insinuano strisciano carsicamente nei processi tanto economici quanto politici. I consevatori vorrebbero tornare alle grandezze nazionali, ad un autarchismo che, tuttavia, non neghi il ruolo di dominio delle potenze più forti su quelle più deboli (Stati Uniti d’America ed Europa, tanto per fare un esempio…). I progressisti, invece, vorrebbero vincolare l’aumento dei diritti sociali, mediante riforme di struttura, ad un nuovo compatibilismo con il liberismo che mostra tutti i suoi eccessi.
Manca quindi una risposta globale e locale al tempo stesso ai grandi problemi della stretta attualità che, come è evidente, sono figli e saranno nipoti del recente passato pseudo-unipolare surclassato dal multipolarismo dei nuovi giganti dell’Asia: India e Cina, ma non di meno altri paesi che si radunano attorno all’acronimo BRICS e che non sono l’alternativa anticapitalista all’impero americano e nordatlantico, ma soltanto una risposta quasi uguale e, per questo, contraria. La guerra in Ucraina, osservata in questo contesto globale, è quindi un accidente di cui Trump deve liberarsi per avere mani libere nell’estremo oriente e dinamizzare l’economia americana confrontandola con quella di Pechino.
Che tra il magnate e Putin esista una certa simpatia lo sanno anche le pietre. Ma che questo potesse essere il punto fulcrale su cui far poggiare una repentina svolta tutt’altro che pacifista, ma rappresentante oggettivamente un netto cambio di passo rispetto al mantenimento della guerra a tutti i costi contro la Russia secondo lo schema bideniano, non era affatto scontato. Purtroppo non siamo in presenza di una diplomazia mondiale che si muove per far terminare un massacro di persone da tre anni a questa parte nel nome di una politica di pace da estendere sul resto del pianeta.
Siamo solo al bieco calcolo utilitarista di un presidente a stelle e strisce che la guerra vuole portarla altrove e che ha bisogno, per questo, di tutte le risorse possibile. Ecco il perché la chiusura della partita con la Russia diviene una impellente necessità di politica internazionale, una geostrategia impossibile da non vedere in tutta la sua mortifera espressione pratica. La domanda che un po’ tutti si fanno conosce sempre lo stesso, prevedibilissimo, punto di caduta: che ruolo ha l’Europa in questo passaggio cruciale? Manca anzitutto una cultura della politica della pace, perché la finalità dell’Unione dei Ventisette è plurale in questo contesto.
Ci sono amici di Putin e un po’ meno amici dello zar. Poi ci sono gli avversari tiepidi e i nemici conclamati. Riuscire ad esprimere quindi una sola posizione in politica estera in questa direzione è davvero un nodo gordiano non sbrogliabile e recidibile solamente con un taglio netto. Ma anche in questo caso, non si arriverebbe ad una soluzione concreta, perché si decreterebbe, senza una attitudine comune, ad una svalutazione complessiva del ruolo dell’Unione Europea nel contesto mondiale e di una sua rilevanza esclusivamente affidata alla tenuta dell’Euro e niente di più. Una moneta ha un valore nel momento in cui chi la gestisce conserva un potere che ne rappresenti in tutto l’efficacia sui mercati.
Senza questa sovrastruttura alle spalle, anche il monetarismo continentale subisce un contraccolpo a tutto vantaggio di un confronto serrato tra Stati Uniti e Cina nella grande partita dei commerci internazionali. Dopo le elezioni tedesche di domenica 23 febbraio, si saprà oltretutto se il paese che traina la baracca deciderà di inviare nuovi armamenti in Ucraina o se invece, in presenza di una vittoria tutt’altro che auspicabile dei neonazisti dell’AfD, si salderà un nuovo asse tra Berlino e Washington e, così, dentro il cuore dell’Unione si aprirà una nuova faglia di contraddizioni che metteranno definitivamente in crisi il vecchio patto franco-tedesco tra socialdemocratici e liberali macroniani sull’implementazione degli aiuti a Kiev.
L’impressione (si fa per dire…) è che anche la NATO, per bocca del segretario Rutte, sia piuttosto silente in questo frangente e lasci a Trump la direzione di una trattativa da cui l’Europa sarà esclusa senza troppe premesse, senza alcun rispetto di un galateo istituzionale anche soltanto formalmente contemplato: i conservatori del MAGA lesinano i convenevoli e vanno ad un dunque che riguarda soltanto l’interesse dei poteri forti che rappresentano, del grande capitalismo iperliberista che, tutt’ora, von der Leyen e soci carezzano come unica risorsa economica anche del Vecchio Continente.
Socialdemocratici e liberalsocialisti, come Scholz e Starmer, ripercorrono vie già battute: nel nome della finzione della tutela delle libertà universali, garantite nelle costituzioni tanto tedesca quanto britannica, sostengono un’economia di crediti di guerra che ha catastrofizzato l’Europa per tutto il travagliato preludio, interludio ed epiloco del Novecento. Addirittura il leader laburista propone un taglio dello stato sociale di ben undici punti in percentuale per finanziare nuovi armamenti, arrivando ad una spesa bellica pari al 2,3% del prodotto interno lordo.
Questa impostazione è una porta spalancata per le destre che si mostreranno ancora una volta come le uniche (in)capaci di guidare una transizione verso un neonazionalismo mostrato come il solo antidoto alla disgregazione anche della UE: qualcuno inizia di nuovo a parlare di un referendum continentale per far decidere i cittadini sugli “Stati Uniti d’Europa” e non più sull’Unione Europea attuale. Quindi una forma federale in cui valgano tanto le singole nazionalità quanto un patto comune sulla falsariga di quello a stelle e strisce d’oltreoceano. E poi c’è Putin che dell’accelerazione di Trump verso la fine della guerra non sembra molto soddisfatto.
Le sue truppe avanzano, seppure di pochi chilometri, giorno dopo giorno e acquisiscono conquiste territoriali che lo avvicinano alla conquista di quasi il cento per cento degli oblast fino ad ora occupati in Ucraina. L’obiettivo di un ritorno ai vecchi confini dell’URSS non è poi così una bislaccheria da complottisti di mezza tacca. Basta prendere una cartina storica, confrontarla con l’oggi e ci si renderà conto di come Russia e Bielorussia insieme costituiscano quella premessa neoimperiale putiniana.
Se, poi, delle elezioni politiche e presidenziali dovessero tenersi in Ucraina al termine della guerra, chi può escludere che non vinca un filo-russo? Difficile dopo il confitto? Certamente. Ma non impossibile. Soprattutto se fosse un candidato sostenuto da Trump con il beneplacito di Putin. Ma rimaniamo ai fatti e non cadiamo nella facilona tentazione della fantapolitica. Restano, quindi, i dati di fatto: l’Europa non ha ruolo fattivo oggi nella trattativa che si dovrebbe tenere a Riad. Zelens’ky lo rivendica, per l’Ucraina e per il continente. Ma sembrano rimasti soli tanto i leader europei tanto il presidente filo USA prima e filo NATO ancora.
Mosca vuole che siano affrontati i temi che hanno portato al conflitto: ossia, tradotto molto più terra a terra, le questioni che riguardano la sicurezza russa. In prima battuta la presenza dell’Alleanza atlantica ai suoi confini dalla Finlandia fino al Mar Nero che, alla fine dei conti, è la premessa per una impostazione neoimperiale dell’Occidente nei confronti dell’Est Europa e dell’Asia. Trump risponde, nella telefonata con Putin, durata un’ora e mezza, che l’Ucraina non entrerà a far parte della NATO e che dovrà rinunciare probabilmente ai territori già conquistati dalla Russia. Le prime rivendicazioni zelenskkyane sul ritorno della Crimea a Kiev ormai sono termini consegnati alla Storia.
Si tratta su altro. Si tratta per Zelens’ky di conservare un ruolo nel dopoguerra. L’eccezionalità della durata della sua presidenza non è simultaneamente una garanzia di probabile rielezione. Se sul tavolo di Riad fosse posta anche la sua testa (politicamente parlando) per condurre in porto un processo di fine del conflitto permanentemente (almeno sul campo…), è certo che Trump non opporrebbe chissà quale veto in merito. Almeno questo è quello che si deduce dalla somma di dichiarazioni fatte fino ad oggi e dai rapporti gelidi tra la presidenza americana e quella ucraina dopo l’uscita di scena di Biden e la mancata elezione di Harris.
La guerra non è prossima alla fine. Ed anche quando sarà finita, lo sarà perché questa saldatura tra ultraliberismo e conservatorismo, tra politica ed economia dominante, tra Stato e mercato rimarcherà tutta la sua impronta moderna in un capitalismo globale incapace di affrontare le proprie crisi se non il conflitto permanente. Dal fallimento della Conferenza moderna di Monaco ad una crisi globale nell’Estremo oriente il passo, purtroppo, è tragicamente breve. E le premesse sono tutte pronte come micce da accendere. Il cerino in mano indovinate chi lo ha…?
MARCO SFERINI
18 febbraio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria