Sulle spese militari Mario Draghi va avanti per la sua strada, Giuseppe Conte altrettanto. «Troveremo una soluzione» è la formula in tre parole del segretario del Pd Enrico Letta, peraltro le stesse tre parole che ha utilizzato il giorno prima Luigi Di Maio, a proposito della presa di posizione di Conte contro l’aumento di spese militari.
È la prima volta che il leader del Movimento 5 Stelle entra in esplicita rotta di collisione con il presidente del consiglio. Draghi, parlando alla camera due giorni, fa aveva evocato Alcide De Gasperi e la missione di «creare una difesa europea». «Ho ribadito l’impegno nei confronti della Nato. Abbiamo questo impegno storico e continueremo a osservarlo», conferma da Bruxelles per il Consiglio europeo.
Parlando con La Stampa sulla tenuta del governo, Conte sceglie parole che appaiono minacciose: «Ognuno farà le sue scelte». È il segnale che la tensione ha superato i livelli di guardia. Interviene la capogruppo del Pd alla camera, Debora Serracchiani. «Quella sulle spese militari è una scelta delicata – afferma – Ma è altrettanto delicato sapere che in questo momento non puoi permetterti di mettere in difficoltà un governo. Immagino che ci sarà responsabilità e consapevolezza del momento». Michele Gubitosa, uno dei vice di Conte, tiene il punto: «Stiamo assistendo a continui solleciti da parte del Pd di rivedere le posizioni del M5S espresse chiaramente da Giuseppe Conte. Dico alla collega Serracchiani di pensare a non mettere in difficoltà il Paese con l’aumento delle spese militari».
La linea del M5S è stata decisa da giorni e confermata mercoledì sera, quando Conte ha incontrato i senatori e ribadita ieri dall’avvocato. «Il governo deve investire sulle priorità degli italiani che sono il caro bollette, il caro benzina, gli aiuti a famiglie e imprese. Solo dopo arrivano le spese militari». Questa formula conterrebbe anche l’escamotage per non contraddire il voto dei colleghi di Montecitorio a favore dell’aumento delle spese per gli armamenti. L’idea sarebbe quella di presentare un ordine del giorno al dl Ucraina in cui si conferma l’impegno ad aumentare gli investimenti per le spese militari ma soltanto «in via subordinata» alla soluzione di altre emergenze.
Al momento Pd, M5S e Italia viva in Senato sono pronti a presentare un ordine del giorno comune circoscritto all’unico punto che li vede convinti e uniti: la creazione di un fondo per l’accoglienza dei profughi minorenni non accompagnati. Fratelli d’Italia, intanto, ha già depositato 28 emendamenti al decreto Ucraina e un odg in cui si chiede il rispetto dell’impegno ad impiegare fino al 2% del Pil per la difesa. E non è detto che non ci siano iniziative sul fronte opposto, provenienti da qualche ex M5S del gruppo misto che vuole stanare i suoi ex colleghi, come accaduto due giorni da alla camera.
Tuttavia, la possibilità che Conte possa davvero strappare con la maggioranza è al momento abbastanza remota: presenta diverse controindicazioni, che è impossibile ignorare e che i vertici grillini hanno ben presenti. La prima riguarda le note questioni legali: può una forza politica con cariche e regolamenti interni sospesi dalla magistratura compiere una svolta politica del genere? Questo dubbio rimanda poi alle eterne questioni sulla tenuta dei gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle.
I più critici nei confronti del governo tra gli eletti del M5S sono i senatori. Più di uno l’altra sera ha sollevato problemi sull’invio di armi e sull’impianto generale decreto Ucraina, che dovrebbe andare in aula dopo la metà della prossima settimana. Alla camera, invece, i giudizi sono più cauti, anche sull’aumento della spesa militare. Infine, se Conte decidesse che questo è davvero il punto di rottura della maggioranza si ritroverebbe catapultato all’inizio della sua carriera politica, ai tempi del governo con la Lega.
Più che una scelta di pacifismo in linea con la Costituzione, quella che ha rivendicato ieri parlando al congresso dell’Anpi di Riccione, la rottura sull’invasione ucraina proietterebbe sul M5S l’ombra del governo gialloverde e l’epoca della fascinazione per Putin che è stata un collante dell’accordo con i salviniani.
A quel punto, diventerebbe difficile da gestire anche l’alleanza strategica col Partito democratico. Non è un caso che Alessandro Di Battista ieri abbia espresso sostegno a Conte. Per di più, è la valutazione che circola tra alcuni degli stessi contiani, un M5S fuori dal governo e fuori dallo schema del «fronte progressista» difficilmente avrebbe ancora l’ex presidente del consiglio come leader. A quel punto si aprirebbe un’altra partita.
GIULIANO SANTORO
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