Il combinato disposto tra la tanto commentata conferenza stampa del Presidente del Consiglio Draghi e le reazioni dei partiti politici della sua maggioranza la dicono lunga sul drammatico marasma istituzionale che si rischia a inizio 2022. E anche sullo spesso strato di ipocrisia che ha avvolto sia le parole dell’uno che quelle degli altri. A Mario Draghi, evidentemente, in tutte quelle due ore e passa di speach tacitiano, interessava lanciare un unico e chiaro messaggio.
E cioè che il suo compito come Capo del Governo poteva considerarsi concluso, e che quindi lui era pronto per il grande salto tra i palazzi, da Chigi al Quirinale. L’ha fatto al prezzo di alcune evidenti bugie: la «normalità ritrovata» nonostante la pandemia si stia impennando, l’operato concorde di una maggioranza che in realtà più litigiosa non si potrebbe immaginare, la riforma fiscale che premierebbe i più poveri… Oltre che di disinvolte imprecisioni: un PNRR già perfettamente strutturato e in attesa solo di essere «messo a terra» come se quest’ultima operazione non comportasse tutte le problematicità possibili, per dirne una. Ai partiti, tutti o quasi – comunque quelli che costituiscono la sua maggioranza -, interessava al contrario sfilargli di sotto il trampolino per quel salto. E l’hanno fatto tessendone in apparenza un elogio sperticato e tirando in realtà un colpo basso alle sue ambizioni.
Incrociando questa doppia menzogna, se ne ricava una verità. E cioè che per «uscirne vivo» dalle Idi di gennaio, al «governo dei migliori» sarebbe necessario un doppio miracolo, sia che prevalgano le ambizioni dell’uno sia che facciano premio gli appetiti degli altri. Se Draghi andasse al Quirinale, resterebbe il rebus irrisolvibile di chi gli succederebbe al Governo, dopo che i suoi «azionisti di maggioranza» avessero consumato obtorto collo la loro precaria unità in quel mandato subìto. Occorrerebbe appunto il «miracolo» di una maggioranza arlecchino che dopo aver subito l’umiliazione di non aver potuto scegliere il sovrano, si acconcia anche a sottomettersi in tinta unita a un sosia in sedicesimo, privo del carisma d’ufficio che «il Migliore» si era visto assegnare.
Se al contrario Draghi restasse inchiodato al suo trono «minore» di Palazzo Chigi, con che maggioranza si ritroverebbe se quella che l’aveva sostenuto finora si fosse spaccata e dilaniata nell’elezione presidenziale? (Domanda che d’altra parte si è fatto lui stesso). Qui il «miracolo» necessario starebbe nella trasformazione istantanea di un branco di istrici rissosi in disciplinate api operaie di un alveare mandelvilliano (e anche questo, come sa chi ha letto la favola dell’alveare operoso che sotto imposizione alimenta i vizi interni , non sarebbe né perfetto né desiderabile). Ma in politica – dovremmo averlo imparato – i miracoli sono rari. Soprattutto i «miracoli italiani». E allora?
Allora bisognerebbe incominciare a riflettere su quanto in realtà sia stata «avventuristica» la soluzione voluta dal Quirinale esattamente un anno fa, favorita dalla solita vocazione piratesca di Matteo Renzi, con la sostituzione per via extra-parlamentare (cioè senza nemmeno un passaggio in Parlamento per verificare la fiducia o certificare la sfiducia) del governo Conte II col governissimo Draghi I: soluzione che allora apparve a quasi tutti – con l’eccezione di questo giornale e pochi altri – la cosa più ragionevole del mondo, scritta nell’ordine delle cose (che coincideva con l’ordine di Confindustria), virtuosa per sua natura.
E che invece conteneva già in sé (per la personalizzazione estrema del comando e l’estensione abnorme della maggioranza) i semi del male che ora germoglia: l’estenuazione e la frammentazione dei partiti in crisi di leadership ma soprattutto di identità; la rissosità marginale di una maggioranza commissariata da un Capo insindacabile che si riserva sempre l’ultima parola; l’eccezionalità dell’aggregazione che non ne permette repliche…
Quella soluzione, allora applaudita in forma trasversale, non ha avvicinato la soluzione della crisi italiana. Ha contribuito per molti aspetti a incancrenirla. È probabile che da questo nuovo passaggio ne usciremo peggiori. Anche perché due incognite pesano come macigni. La prima è sanitaria. Dopo che hanno parlato le forze politiche (le cui parole però, si sa, son leggere), occorrerà aspettare che parli il virus (il cui codice comunicativo è al contrario pesantissimo): che succederà se alla metà di gennaio i contagi saliranno ancora, magari raddoppieranno come teme l’OMS, se le terapie intensive si satureranno? Come evitare che la tentazione dell’emergenza (quella vera, non quella dei DPCM) allunghi la sua ombra sul passaggio istituzionale in atto? Il secondo è politico (o meglio «etico», se il termine si potesse ancora usare senza temere i risolini di scherno degli uomini di mondo): ed è l’ipotesi di una candidatura Berlusconi.
Non dico dell’elezione, che sarebbe una catastrofe inimmaginabile. Ma anche solo della sua candidatura, che incrocerebbe la tragedia della pandemia con la farsa della politica. Se in quell’aula echeggiasse nello scrutinio il nome del pluricondannato ex presidente del Consiglio. Se pur anche una parte della nostra rappresentanza parlamentare votasse un uomo che non solo è stato condannato in via definitiva, ma che ha ancora processi in corso, per conferirgli la più alta carica dello Stato (quella che comporterebbe la presidenza del CSM e la guida della magistratura), l’immagine stessa dell’Italia cadrebbe in un fango indelebile. Costituirebbe, diciamocelo – diciamolo! – davvero un punto di non ritorno.
Sarebbe bene che chi ha mantenuto un brandello di lume della ragione si risvegliasse dal torpore. Che i vari Letta e Conte la smettessero di far melina (cosa va bisbigliando il primo con la Meloni? Cosa va riconoscendo il secondo a Berlusconi?). E prendessero atto del pericolo, parlando per una volta con chiarezza, perché un’eventuale candidatura Berlusconi non è «divisiva», come vanno dicendo. È distruttiva. Per il Paese intero.
MARCO REVELLI
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