«La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia»
Mario Draghi
È la cronaca di una frana che monta per tutta la giornata e travolge uno dopo l’altro gli ostacoli che cercavano di arrestarla. Sin dal primo mattino, quando il ministro 5S D’Incà, col beneplacito di Conte ma forse in segreto anche di Draghi, aveva inutilmente provato a fermarsi sull’orlo del precipizio rinunciando al voto di fiducia sul dl Aiuti.
Alla fine resta uno spiraglio per evitare elezioni anticipate che, in questa situazione, sarebbero per la destra una battaglia vinta in partenza. Ma è strettissimo. Mattarella, nel secondo colloquio della giornata con Draghi, ha respinto le sue dimissioni.
Era una mossa quasi obbligata dal momento che il premier, contestualmente all’annuncio delle dimissioni, aveva anche comunicato la decisione di parlare in aula mercoledì, prima data utile dopo la trasferta in Algeria.
Uno strafalcione istituzionale non avendo un premier dimissionario alcun diritto di decidere se e quando intervenire in aula.
A quel punto il presidente non poteva che respingere le dimissioni. C’è però da scommettere che lo abbia fatto volentieri e si sarebbe mosso comunque in quella direzione. Mattarella non vuole la crisi. Il tentativo più autorevole e pesante di fermare la deriva lo aveva fatto proprio lui, nel primo e «informale» colloquio della giornata, intorno all’ora di pranzo.
Per quanto le bocche siano cucite tutto lascia pensare che non si sia trattato di una conversazione serena e distesa. Il premier si è presentato deciso a lasciare dopo che i 5 Stelle avevano dato seguito alla scelta di non partecipare al voto di fiducia sul dl Aiuti. Mattarella ha insistito, ha sottolineato l’importanza di completare gli impegni del Pnrr e le misure d’emergenza sull’energia, la necessità di non lasciare il Paese senza governo in una fase di prevedibile crisi economica e sociale.
È probabile che abbia anche messo in luce l’effetto devastante delle doppie dimissioni di Johnson e di Draghi sullo scacchiere della guerra ucraina.
Stavolta, a differenza del solito, la moral suasion del capo dello Stato non ha sortito l’effetto sperato. Draghi ha evitato di dimettersi subito, poi però ha convocato il consiglio dei ministri e lì è passato all’azione. Anche in quella sede il tentativo di fargli cambiare idea è stato corale, dall’interno e dall’esterno di palazzo Chigi, da Letta a Franceschini, da Giorgetti a Brunetta tutti hanno provato a far tornare il premier sulla sua decisione.
L’ultimo, quasi il più accorato, è stato il Pd Orlando. Il tono adoperato da Draghi, ancora più che la determinazione nel dimettersi nonostante le pressioni del Colle, della Ue, dei partiti, suona definitivo, con pochissimi margini di recupero di qui a mercoledì: «La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo».
Nel testo originale era citata anche l’intenzione di recarsi in Parlamento mercoledì, scomparsa poi dalla versione distribuita ai media probabilmente perché Draghi si è reso conto del passo falso istituzionale che comportava.
Nei prossimi giorni il lavoro per rendere possibile quel che oggi non lo sarebbe sarà continuo. Lo stesso Mattarella fa capire oltre ogni dubbio di mirare a questo risultato. Nel comunicato col quale informa di aver respinto le dimissioni chiede infatti che «si effettui, nella sede propria, una valutazione della situazione che si è determinata». È lo spiraglio ancora aperto ma la possibilità di allargarlo non è solo nelle mani di un premier che per la verità al momento non sembra averne alcuna intenzione.
Se però da tutti i partiti della maggioranza si alzassero parole e toni tali da garantire d’ora in poi pieno sostegno all’azione del governo, il ripensamento sarebbe forse possibile.
Ma per Draghi quei toni possono essere solo l’accettazione da parte di tutti delle sue condizioni e del suo metodo di governo. Un passo che per i 5S, dopo lo strappo di ieri, è diventato impossibile.
Solo dopo il dibattito di mercoledì, a seconda dei rapporti che si registreranno tra governo e partiti, Mattarella, se la crisi non sarà rientrata in extremis, deciderà se lasciare in carica per l’ordinaria amministrazione e per gestire la fase elettorale questo governo oppure, come è più probabile, formare un esecutivo ad hoc affidato a un’alta carica istituzionale, quasi certamente il presidente della Consulta Amato.
Ma sino all’ultimo secondo il presidente si augurerà e si adopererà per non doverlo fare.
ANDREA COLOMBO
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