Dopo un mare di macerie e settantamila morti…

Soltanto con il coraggio che gli ipocriti possono avere Benjamin Netanyahu potrà recarsi ad Auschwitz il 27 gennaio prossimo. Cos’è rimasto da distruggere nella Striscia di Gaza? Macerie su...

Soltanto con il coraggio che gli ipocriti possono avere Benjamin Netanyahu potrà recarsi ad Auschwitz il 27 gennaio prossimo. Cos’è rimasto da distruggere nella Striscia di Gaza? Macerie su macerie? Cadaveri su altri cadaveri? Si può davvero ancora parlare, con una qualche vena di disinvoltura, di “risposta” israeliana al crimine del 7 ottobre 2023? Un anno e mezzo è trascorso e la guerra scatenata dallo Stato ebraico contro i palestinesi (è sempre più evidente, anche dai mandati di cattura della Corte Penale Internazionale) ha fatto molto più di trentamila morti. Sembra siano addirittura settantamila.

Ma, c’è da giurarci, per chi esibisce con grande mestizia e tragicità questa cifra, tutt’altro che esorbitante visto la stato di desolazione in cui versano Gaza, Khan Yunis e Rafah, Tel Aviv avrà già pronta l’accusa di antisemitismo, di odio nei confronti del popolo ebraico, di inimicizia ideologico, storica, politica, persino etnico-religiosa. Sono state provate tutte le revisionistiche accuse di un governo che ha preso per il naso l’ONU, l’ha tacciato, per l’appunto, di disprezzo verso gli ebrei e, più in generale, verso gli israeliani e che ha proseguito, con la guerra ad Hezbollah, nel suo piano imperialista.

La guerra di Gaza è uscita dai confini palestinesi, dagli anfratti malsani di una recintazione delle sopravvivenze di milioni di persone che erano costrette, da decenni, a vivere in completa dipendenza da Israele. Le bufale sul ritiro unilaterale dalla Striscia, sulla preservazione della popolazione cisgiordana mediante l’elevazione dei muri e l’istituzione di sempre più check point, ormai sono sotto gli occhi di tutti coloro che hanno un minimo di senso critico e si rendono conto che, laddove sono presenti oltre settecentomila coloni, armati di tutto punto e infervorati dal peggiore fanatismo religioso, non può esservi nessuna convivenza.

Ma i palestinesi erano, sono e rimarranno i tollerati, nel migliore dei casi. Perché l’alternativa è l’espulsione o, come nel caso della guerra scatenata dopo il 7 ottobre, il progetto di annientamento genocidiario di cui soltanto una parte del mondo ha contezza e lo denuncia. In Occidente, anche nei discorsi di fine anno dei vari capi di Stato, non una delle parole che dovrebbero riguardare la tragedia israelo-palestinese è stata pronunciata dai presidenti nei loro studi eleganti con dietro la bandiera nazionale e quella dell’Unione Europea. Si parla di terrorismo nei confronti di Hamas, e si fa bene a farlo. Ma poi non si continua nell’aggettivazione che dovrebbe riguardare Israele: Stato occupante, colonialista…

Quando si cita Tel Aviv, si riconosce la brutalità della guerra contro Gaza, contro il Libano del Sud. Ma poi non si va oltre: non si fa nemmeno cenno a ciò che Amnesty International, insieme a molte altre organizzazioni umanitarie, denuncia da tempo, ossia la disumanizzazione impressionante nelle carceri israeliane. I prigionieri palestinesi sono oggetto di abusi come il sovraffollamento voluto, la privazione del sonno oltre che del cibo; la negligenza medica e, come non potevano mancare, le percosse violente e a lungo perpetrate anche nei più giovani e nei più anziani. Secondo la destra sionista al potere, di comune accordo con i militari e con i poliziotti carcerieri, un palestinese è un terrorista.

A prescindere. Da tutto e da tutti. Non importa alcuna differenza. La tortura, scrive Francesca Albanese in “J’accuse“, «rimane un metodo impiegato per intimidire e ottenere confessioni o informazioni, sebbene non esclusivamente da persone considerate “pericolose per la sicurezza”» dello Stato. Risulta evidente che nelle carceri di Israele ogni riferimento al divieto degli abusi stabilito dal diritto di qualunque democrazia, oltre che da quello internazionale, è una aleatorietà, qualcosa di intangibile, di non più riscontrabile sul campo, tra le mura malsane delle galere. Innanzi a tutta questa dimostrazione di forza, qualunque domanda sul “diritto” di Israele di fare ciò che sta facendo da decenni ha il sapore dell’ingenuità manifesta.

Eppure non dovrebbe essere così. C’è qualcosa di peggio di una democrazia impotente: è quella democrazia che, volutamente, supera sé stessa e scientemente usa il suo nome per proteggersi agli occhi di una Storia che, prima o poi, la giudicherà: perché i fatti, nonostante gli oltre centocinquanta giornalisti uccisi da Israele a Gaza e in Libano, e nonostante l’esclusione dei mass media dalle zone di conflitto, riescono a venire piano piano fuori. E così oggi sappiamo che i morti non sono trentamila, ma più del doppio. E che, nonostante tutto questo, Netanyahu continua a far bombardare Gaza, a lanciare missili contro Hezbollah, a prendere di mira gli Houthi.

Ma davvero servono fini analisti per rendersi conto che la guerra di Gaza è una moderna guerra tutta mediorientale, scatenata da Israele contro i regimi arabi, contro i popoli arabi, per creare le condizioni migliori di un dopo-guerra in cui i precedenti “patti di Abramo” divengano un banco di prova su cui edificare un ordine ancora più filo-occidentale rispetto al precedente, con un Iran indebolito dall’oggettiva sproporzione militare-bellica dello Stato ebraico, capace di colpire la Repubblica islamica e difendersi dai suoi attacchi preannunciati come ritorsione per le uccisioni nei consolati e nella ambasciate?

Se il riferimento costante deve essere il diritto internazionale, non c’è qui attore più denigrato e marginalizzato del sistema di leggi condivise e sottoscritte dalla maggioranza delle nazioni. Il regime di apartheid che Israele ha creato ben prima del 7 ottobre 2023 è una delle dimostrazioni di una sistematica violazione dei diritti fondamentali dell’essere umano, del cittadino, del vivente in senso stretto. L’apartheid è, dai tempi del Sudafrica di Mandela, non soltanto più un metodo di gestione politica delle minoranze etniche, costrette e subire vessazioni di ogni tipo nel nome della superiorità della maggioranza (ora bianca e anglosassone, ora israliano-ebraica), ma una concettualizzazione culturale.

In sostanza, si tratta di una presa d’atto che i crimini di uno Stato possono assumere quella forma preconcetta e quella pratica di segregazione che realizza un dominio fondato sul privilegio razziale, sull’esclusione a tutto spiano, sulla non riconoscenza del diritto universale alla vita, alla dignità per tutte e per tutti. Un salto indietro di almeno tre secoli dalla Rivoluzione francese e dai Lumi. Una regressione che ci aspetterebbe da un regime tribale ma non da Stati che si fregiano di costituzioni democratiche, del valore aggiunto del parlamentarismo e, quindi, della dialettica tra governo e opposizione nella (si dice) libertà di espressione, di stampa, di critica, di movimento.

Ciò che gli israeliani oggi hanno, non lo possono avere i Palestinesi: uno Stato indipendente, riconosciuto dalla comunità internazionale; un governo, un parlamento, delle libere elezioni, una magistratura autonoma dal potere politico; le libertà civili e sociali, il diritto all’autodeterminazione. Qualcuno si è domandato se le millequattrocento vittime della brutalità di Hamas avrebbero voluto come risposta alla loro tremenda fine l’assassinio di settantamila palestinesi? La vita di un bimbo israeliano e di un bimbo palestinese può essere soppesata diversamente a seconda del punto di nascita? Il punto dirimente è che per Israele nulla ha valore se non Israele stesso. E nel nome di questo assunto tutto è permesso e nulla è vietabile. Tanto più dalla comunità internazionale.

Se Netanyahu visiterà Auschwitz il 27 gennaio, rendendo omaggio ai milioni di ebrei trucidati nei campi di sterminio del Terzo Reich, si parerà dietro l’immunità che il governo polacco intende dargli rispetto al mandato di cattura internazionale. E dirà ancora una volta che quei crimini non vanno ripetuti, mentre a Gaza vengono ripetuti: perché l’intento genocidiario diviene sempre più chiaro nel momento in cui le cifre delle migliaia di morti ammazzati dalle bombe e dai droni israeliani crescono esponenzialmente. Non si tenta qui di fare un paragone tra l’Olocausto e quello che accade nel Medio Oriente oggi, perché sarebbe improprio tanto quanto il tentativo del primo ministro israeliano di passare per l’erede delle vittime fatte dall’hitlerismo.

Ma possiamo dire che ciò che sta facendo il governo di Netanyahu è criminale? Quante decine di migliaia di morti ci vogliono per dimostrare che la guerra contro Gaza è fatta per cacciare i palestinesi dalla Striscia e ridurne al massimo il numero entro quel che resta del Territorio occupato? Possiamo dire che l’occupazione è illegale e che un governo che vive e prospera nell’illegalità è indegno di rappresentare uno Stato che scrive la sua storia a partire dalla più grande tragedia mai vissuta in un dato momento dell’evoluzione umana, concentrata in pochi lustri e così deflagrante? Possiamo dire che tutto questo è terrorismo di Stato o facciamo torto ai valori occidentali che Israele vorrebbe rappresentare a metà tra Europa ed Asia?

Possiamo affermare che una democrazia deve garantire la vita di tutti e non negarla sulla base della distinzione etnica, sulla potenza militare, economica, divenendo quindi l’esatto contrario di ciò che dovrebbe invece essere? Non può un intero popolo essere terrorista, così come lo tratteggiano i leader iper-religiosi della destra israeliana. Non può perché, molto semplicemente, non è così. Ogni generalizzazione è fascistizzazione e se si scivola su questo piano inclinatissimo, si finisce col banalizzare qualunque concetto e, quindi, nulla conta, tutto diventa possibile. Da dire e da fare. È evidente che non possiamo chiedere a Netanyahu di smentire tutta la sua vita, tutto il suo cursus disonorum degli ultimi trenta, quarant’anni di attività politico-istituzionale.

Quindi non serve domandargli di finire la guerra. Ma va arrestato. Perché questo chiede la Corte Penale Internazionale. Perché oltre all’oggettivo progetto di sterminio del popolo palestinese, che si invera giorno dopo giorno nella continuità delle azioni contro i civili palestinesi, esiste un ruolo duplice tra governo e militari che deve essere chiarito: se è sempre l’esecutivo a dare ordini a questi ultimi, non di meno l’esercito ha una responsabilità palese nell’esecuzione di comandi che non sono direttamente volti a colpire un Hamas che, a questo punto, dovrebbe essere completamente azzerato. Ed invece non è così: la questione degli ostaggi rimane, dopo sedici mesi, irrisolta.

Siccome la Striscia non è grande quanto la Russia o gli Stati Uniti, ma leggermente più di un micro-Stato europeo, come è possibile che Tsahal non abbia scovato tutto il scovabile, bonificato tutto il bonificabile? Sono poi le domande più semplici che vengono a galla, perché quello che si vede è la desertificazione delle città, e la piena conoscenza da parte dell’intelligence israeliana della rete dei tunnel di Hamas dove stanno gli ostaggi. Come può essere allora che, con tutta la potenza di fuoco, con cecchini e droni a disposizione, con un esercito tra i più potenti del mondo, non si sia ancora riusciti, mediante canali diplomatici e azioni mirate sul terreno, a liberare gli ostaggi e a mettere fine alla guerra?

La verità è che quegli ostaggi servono a Netanyahu per portare avanti il conflitto, la cui fine sarebbe anche la fine del suo governo. Il massimo del cinismo, della crudeltà contro il proprio popolo nel nome del popolo stesso. Perché, tenetelo bene a mente, nonostante tutto… parliamo di una democrazia!

MARCO SFERINI

11 gennaio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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