Si respirano atmosfere diverse a cavallo delle linee tra Israele e la Cisgiordania occupata. Titoli e commenti sui quotidiani israeliani celebravano ieri la firma alla Casa Bianca degli Accordi con Emirati e Bahrain. Esperti ed analisti si sono impegnati a spiegare le opportunità che gli accordi aprono allo Stato ebraico nel nuovo ordine mediorientale. Qualcuno ha provato a sollevare dubbi sulle intese con le monarchie arabe che chiudono a chiave in un cassetto la rivendicazione dei palestinesi di vivere come un popolo libero dopo decenni passati sotto occupazione militare. Ma la tensione con Gaza risalita martedì sera dopo il lancio di razzi palestinesi verso Ashdod seguito da pesanti bombardamenti aerei israeliani sulla Striscia – mentre negli Usa si firmava l’Accordo di Abramo – ha offerto il motivo per accusare i «terroristi» di «minacciare il progresso della pace» nella regione. «Hanno sparato contro Israele proprio durante una cerimonia storica. Vogliono far retrocedere la pace, ma non ci riusciranno», ha avvertito il premier Netanyahu.
A Ramallah invece il clima è pesante. Nell’ufficio del presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen ieri ha regnato per ore un silenzio carico di tensione. «Il problema principale è la sofferenza del popolo palestinese. Nessuna pace sarà possibile se non si metterà fine all’occupazione israeliana», ha ribadito martedì il leader dell’Anp mentre nelle strade di Ramallah e di altri centri centinaia di persone protestavano contro la «pugnalata alle spalle» inferta da Emirati e Bahrain. «La fiducia nei paesi arabi era crollata da tempo ma la normalizzazione (con Israele) senza attendere la fine dell’occupazione e l’indipendenza palestinese è ugualmente un duro colpo da assorbire», spiega al manifesto Fadi Aruri, giornalista e noto attivista della sinistra palestinese. «Credevamo di aver compattato la Lega araba dietro al rifiuto dell’annessione della Cisgiordania (a Israele) e non ci aspettavamo che gli Emirati, in questa fase tanto delicata, potessero decidere di avviare rapporti con l’occupante israeliano», aggiunge il giornalista.
Riemergere da questa nuova crisi non sarà facile, avverte Aruri, «mentre il campo politico palestinese resta spaccato tra Fatah (di Abu Mazen) e (il movimento islamico) Hamas che controlla Gaza». Ed è una ipotesi concreta, aggiunge, che i ricchi Emirati, in risposta alle contestazioni palestinesi, decidano di interrompere il flusso di donazioni all’Anp già con le casse vuote a causa della crisi economica conseguenza del coronavirus e della rottura quasi completa dei rapporti con Israele. Decine di migliaia di dipendenti pubblici da mesi ricevono solo metà dello stipendio. «Una situazione del genere – prevede il giornalista – rischia di pregiudicare una risposta efficace dell’Anp alla crisi dei rapporti con i paesi arabi, ammesso che ne abbia una in cantiere».
Sentimenti di rabbia, frustrazione e rassegnazione attraversano la popolazione palestinese. Critiche e condanne non risparmiano nessuno. A cominciare dal presidente Abu Mazen, accusato di aver scelto nel 1993, assieme ai leader palestinesi dell’epoca, di andare alla normalizzazione con Israele senza avere nulla di concreto in mano. Un sondaggio appena pubblicato dal “Centro Palestinese per Ricerca politica” rivela che se elezioni presidenziali si tenessero oggi in Cisgiordania e Gaza, le vincerebbe il leader di Hamas Ismail Haniyeh con il 52% dei voti. Il 61% degli intervistati vuole che Abu Mazen si dimetta. Il 62% inoltre attribuisce al fallimento della diplomazia palestinese la virata di Emirati e Bahrain dalla parte di Israele. Resta immutato il carisma di Marwan Barghouti, alto dirigente di Fatah incarcerato da 18 anni in Israele e considerato il «Nelson Mandela» della Palestina. Se fosse lui e non Abu Mazen a sfidare Ismail Haniyeh riceverebbe il 55% dei voti.
Il dato più significato del sondaggio però è questo: Il 24% dei palestinesi si dichiara pronto ad emigrare. «Non ne sono sorpreso» afferma Fadi Aruri «gli occupanti e i loro alleati ci stanno rendendo la vita impossibile, è una strategia precisa. Convincere i palestinesi a non abbandonare la loro terra sarà uno dei compiti più ardui per i leader politici vecchi e nuovi».
MICHELE GIORGIO
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