Dopo la Waterloo, la destra corre verso l’abisso

Salvini difende i candidati fallimentari, Meloni invece esulta: «La partita a Roma è aperta. Siamo il primo partito della Capitale, un centrodestra a trazione FdI è molto competitivo»

Salvini, parola sua, «ci mette la faccia». Fresco di mazzata pesantissima è il primo a presentarsi di fronte alle telecamere. Un passaggio al volo sull’affluenza a picco, che impone a tutti autocritica secca. Poi l’ammissione, concisa, apparentemente onesta: «Abbiamo perso per demeriti nostri». Negarlo sarebbe impossibile. Non è Caporetto: è Waterloo: per tutta la destra e per la Lega in particolare. Una sconfitta costruita mattone per mattone con le proprie mani, con un dilettantismo politico sbalorditivo.

A Milano il candidato della destra, Bernardo, non arriva al ballottaggio e la Lega si attesta intorno al 11% nel voto di lista: meglio di FdI che si ferma al 10% ed è un piccolo sospiro di sollievo dal momento che in via Bellerio temevano il sorpasso. Ma il risultato resta misero. A Bologna Lepore sbaraglia Battistini. È una sconfitta personale del leader che i candidati travolti li aveva scelti di persona, contro il parere di Fi e Giorgetti. Torino è la ferita più dolorosa: ballottaggio sì ma partendo dal secondo posto, e si parla dell’unica piazza in cui la destra sperava (e ancora spera, ma poco) nella vittoria della bandiera.

A Roma Michetti è primo, con 4 punti di vantaggio su Gualtieri. Vittoria amarissima: il successo è frutto della divisione del centrosinistra, lo scarto è limitato e non autorizza previsioni rosee. Si può sempre sperare ma solo perché la speranza è l’ultima a morire. Qui la responsabilità di aver regalato la partita agli avversari puntando su un candidato debolissimo è di sorella Giorgia: però mal comune non fa mezzo gaudio. C’è sempre la Calabria, ma anche lì senza la divisione a sinistra il risultato sarebbe stato molto più combattuto e nella Lega il «partito del nord» non solo non si accontenta ma s’infuria ancora di più. L’unica vittoria in Calabria ha il sapore della beffa.

Salvini ammette la mazzata. Lo fa anche Lupi per Fi, «abbiamo preso una scoppola», e, da candidato abbattuto da Salvini, si toglie il sassolone dalla scarpa: «I candidati sembravano scelti a X Factor». Meloni invece esulta: «La partita a Roma è aperta. Siamo il primo partito della Capitale, un centrodestra a trazione FdI è molto competitivo». Anche l’autocritico leghista, peraltro, difende le fallimentari scelte in stile X Factor. Si trattava dei «migliori candidati possibili»: figurarsi gli altri. Dove sta dunque «il demerito»? Nell’aver scelto i trombabili al termine di un prolungato psicodramma sconfinato nella pochade, troppo tardi: «Abbiamo avuto troppo poco tempo per presentarli agli italiani». Come dire che la colpa è tutta della galvanizzata Giorgia, essendo stata lei a tirarla per le lunghe.

È uno di quei casi, insomma, in cui l’autocritica di facciata non implica ripensamenti di sorta, non prelude a una sterzata che per la destra sarebbe indispensabile. Al contrario conferma l’intenzione di correre spensieratamente verso l’abisso. Nessuna capacità di individuare il virus che ha trasformato in disfatta quello che sino a pochi mesi fa prometteva di essere un successo smagliante, e quanto ad affrontarlo non se ne parla nemmeno: una competizione interna sguaiata, nella quale l’egoismo e l’interesse di partito hanno sempre fatto premio sulle ragioni dell’alleanza. La diagnosi, impietosa ma precisa, la deve fare il nemico, Enrico Letta: «Manca Berlusconi, manca un federatore». Solo che i federatori mancati da quell’orecchio sono in egual misura sordi. Stando alle prime reazioni, ma pochi si illudono che le cose cambieranno, il prosieguo sarà uguale al passato: una competizione sorda e feroce dalla quale entrambi i contendenti usciranno sconfitti. Perché se è vero che rispetto al 2018 la leader di FdI ha moltiplicato i consensi, è anche vero che il prezzo è il ritorno del suo partito in un ghetto che la condanna all’ininfluenza e, in tempi appena più lunghi, all’asfissia.

Anche sul secondo nodo critico che ha strozzato il centrodestra in queste elezioni, il rapporto con il governo, Salvini non scarta di un millimetro: «Se qualcuno pensa di usare il voto per abbattere il governo di unità nazionale si sbaglia di grosso. Qui siamo e qui rimaniamo». Sono i toni degli ultimi mesi: sostegno stentoreo al governo nelle parole (e in realtà anche nei fatti) smentito però e depotenziato dalla contemporanee concioni sovraniste.
In un partito e in una coalizione vitale, di qui alle politiche dovrebbe cambiare tutto. Nella Lega e nella destra, secondo gli unanimi pronostici interni non cambierà niente.

ANDREA COLOMBO

da il manifesto.it

foto: screenshot

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Politica e società

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