Dopo anni di intensi negoziati, il 14 luglio 2015 la diplomazia internazionale sottoscriveva con i vertici di Teheran l’accordo nucleare JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action).
Cinque anni dopo, quell’intesa è fallita a causa del ritiro unilaterale del presidente statunitense Donald Trump. Tirando le somme della politica trumpiana nei confronti dell’Iran, all’affossamento del JCPOA occorre aggiungere il rinnovo delle sanzioni, la crisi delle petroliere, l’abbattimento dei droni e l’assassinio del generale Soleimani.
Sotto costante attacco statunitense, la leadership iraniana ha avanzato richiesta all’Interpol affinché venisse emesso un mandato di cattura nei confronti del presidente statunitense. Da Lione, l’Interpol ha ovviamente rimandato la richiesta al mittente. Per la Repubblica islamica, il problema maggiore resta l’isolamento scatenato dalla Rivoluzione del 1979 – quando l’Ayatollah Khomeini dichiarava di voler esportare la rivoluzione suscitando tanti timori – e dalla presa degli ostaggi nell’ambasciata statunitense a Teheran il 4 novembre di quello stesso anno.
All’isolamento, occorre aggiungere l’eterogeneità delle visioni politiche all’interno dei vertici di Teheran e il loro pragmatismo, spesso confuso con un radicalismo ottuso.
La politica di Trump nei confronti dell’Iran è disastrosa sia per la popolazione iraniana, sottoposta a un durissimo embargo economico, sia per l’Unione Europea su un duplice fronte: costrette a rinunciare all’Iran a causa delle sanzioni del Tesoro statunitense, le imprese del vecchio continente perdono un mercato emergente da 82 milioni di potenziali consumatori e con una manodopera a basso costo, istruita e altamente qualificata; non riuscendo a mantenere fede ai termini del JCPOA, Bruxelles perde anche credibilità perché è evidente che si piega sempre ai diktat a stelle e strisce. Lasciando così via libera alla Cina, che con Teheran sottoscrive un accordo di venticinque anni ad ampio raggio.
In vista delle elezioni americane del 3 novembre, Trump potrebbe avviare ulteriori azioni ostili contro l’Iran per distogliere l’attenzione dai problemi interni? Tutto è possibile, ma il presidente si gioca la rielezione sul mantenere fede alle promesse fatte in campagna elettorale e quindi a quella di mettere fine alle guerre mediorientali: l’essere responsabile di un nuovo scontro con l’Iran lo danneggerebbe, e non poco.
Da qui, l’ostinazione con cui Trump vuole trattare con i Talebani per ritirare quanti più soldati possibile dall’Afghanistan, ma pure il licenziamento del consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton a causa delle divergenze sull’opportunità di intervenire pesantemente in Medio Oriente. Di certo in questo momento l’amministrazione repubblicana ha altre gatte da pelare.
La pandemia ha ucciso oltre 130mila statunitensi e convinto l’11 luglio Trump a indossare per la prima volta una mascherina blu notte, con nell’angolo lo stemma presidenziale, in occasione della visita ai feriti ricoverati nell’ospedale militare Walter Reed di Bethesda, nel Maryland. E poi ci sono le questioni razziali scatenate dalla morte di George Floyd lo scorso 25 maggio. Senza sottovalutare l’impatto delle rivelazioni nel libro del conservatore Bolton.
In ogni caso, se Trump sarà rieletto resterà un pericolo costante per i vertici di Teheran. Il suo avversario Joe Biden dovrebbe essere meglio disposto a usare la diplomazia, ma sarà davvero meno pericoloso per l’Iran? Biden è stato il vicepresidente di due amministrazioni Obama. Nella prima, quella con Hillary Clinton segretario di Stato, aveva deciso l’intervento in Libia e in Siria.
Nella seconda, quella con Kerry segretario di Stato, si era impegnato nel JCPOA. Se Hillary fosse rimasta segretario di Stato, difficilmente i negoziati per il JCPOA sarebbero arrivati alla firma di un accordo. Ora, Biden sembra molto più vicino alla prima amministrazione Obama che alla seconda, tant’è che corre voce di una sua possibile scelta di Susan Rice – da sempre interventista in Medio Oriente – quale suo vicepresidente.
A uscire perdente dalle elezioni americane sarà, sempre e comunque, l’Unione Europea. Se il motto di Trump è America first, parlando ai metalmeccanici nella sua città natale a Scranton – in quella Pennsylvania dove nel 2016 Trump aveva vinto con un margine minimo rispetto a Hillary – Biden punta tutto sulla ripresa economica post-Covid con investimenti da 700 miliardi di dollari, il piano più importante dopo la Seconda guerra mondiale.
Il suo slogan è Buy America, un chiaro monito all’Unione Europea: se Trump impedisce alle imprese europee di sviluppare il business con Teheran, di certo Biden chiuderà il mercato statunitense agli stranieri. Ma non per questo permetterà di riprendere a fare affari con ayatollah e pasdaran.
FARIAN SABAHI
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