«Finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere, fratello di garofani e delle ragazze, padrone di quella corda marcia d’acqua e sale che ci lega e ci porta ‘nte ‘na creuza de mä». Proprio in quel viottolo, in quella stradina, vicolo umido odoroso, creuza impregnata di sale marino, cammina un anarchico di varie età. Sigaro toscano tra i denti, ombre e rughe segnate, incise nel volto di chi fu marinaio; sguardo fiero e ironico, scaltro, divertito di chi marinaio non è.
Andrea raccontato da Federico Traversa in Su La Testa! I miei anni con Don Andrea Gallo (Il Punto di incontro, pp. 254, euro 13,90) assomiglia al Dria cantato da Fabrizio De André; con loro ci perdiamo tra sentieri di una città, Genova, espressione di un’anima malinconica, stravolta da canti allegri di pescatori. Da dove viene, dov’è che va quel marinaio errante «quando la luna si mostra nuda», senza veli e «quando la notte ci punta il coltello alla gola»?
Certo, immaginare che De André abbia cantato don Gallo sarebbe un bello straniamento. Ma con i fuori luogo, dallo spazio idealmente o materialmente circoscritto dalla società, fuori dai confini, dalle frontiere, Andrea cammina e ai fuori luogo, navigatori ‘na creuza de mä si rivolge l’amico Faber. Chi si sposta, migra, fa mutare lo sguardo e, per questo, spesso dà fastidio. Passeggiando fuori dai luoghi, Federico Traversa ci porta a sradicare le scontate geometrie della mente e, invece di proporci un ritratto di Don Gallo, ci fornisce le coordinate riferite alla posizione dell’osservatore, la localizzazione da perdere per amare.
Farne un’«iconografia» sarebbe come ingannare l’imprevedibile fragilità che emerge da questa storia. Il libro ci porta a camminare, a smarrirci con i viaggianti, ad ascoltare le loro parole, non solo ciò che si dicono, ma come lo dicono: la sincerità, l’interesse, l’ironia, la verità. Con i viaggianti, attraversiamo Sanbe, dove il giovane prete ribelle ha trovato ospitalità dopo che i settori conservatori della curia avevano provato a spedirlo nell’isolamento di Capraia. È là che si intonano canti partigiani, si riceve e si offre accoglienza.
San Benedetto al Porto è una comunità fuori luogo, fondata tra le domande, dove la fede invece che essere una certezza da trasmettere, diventa una domanda che inquieta, agita, non si adagia mai sulle comode sicurezze. Potrà forse sembrare ingenuamente romantico che il metodo principale per affrontare il disagio – quella capacità di amare incondizionata, libera da qualsiasi giudizio o morale di peso sulla coscienza – possa riuscire laddove rischiano di fallire le teorie più sofisticate e concettualmente coerenti. Eppure, servire più che essere serviti, come don Gallo diceva, è condizione necessaria, ma non sufficiente.
Bisogna capire le vicende non individualmente, comprendere che a essere distruttivo è il bisogno di consumo da affrontare con analisi critica, visione politica, come mostra il suo impegno tra i movimenti No Global. E poi ci sta che quello che sembra essere così scontato, l’amore e l’impegno politico, faccia notizia al punto tale che «il don» appaia spesso come una vera e propria star, dando l’impressione di compiacersi nel prendersi gioco dei padroni della morale: anche questo, fuori luogo. E, camminando fuori dai luoghi alla fine ci si trova «nella casa di pietra, nella casa dell’Andrea che non è marinaio» o non lo è più, almeno. E anche questa casa non ci dà certezze, ma porta a chiedersi chissà il marinaio «a queste pance vuote cosa gli darà».
PAOLO VITTORIA
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