S’è persa la cultura del dolore come elemento che non può prescindere da noi stessi, che ci deve riguardare perché facciamo parte di una comunità ampia, del così tanto celebrato – un tempo – concetto di “villaggio globale”.
S’è persa una cultura del dolore che è rispetto verso l’altro e che è, al contempo, riconoscimento della propria capacità di rimanere al di qua di una certa soglia della critica, del giudizio e dell’imposizione. Soprattutto quando non se ne ha il diritto.
A questo ci stiamo uniformando, mettendo sulla medesima lunghezza d’onda brutalità dei governi e dei poteri economici con sentimenti personali, relazioni sociali che si estinguono sotto il peso dell’ipocrisia di una felicità ostentata ma decrepita.
L’egoismo, anche involontario, genera concetti che ci allontanano dalla comunità, che ci isolano e ci fanno isolare: l’individualismo prevale e, quindi, la difesa della sempre più piccola patria personale è la prima legge di insalubre salute pubblica. Un morbo indorato dalle fantastiche promesse di governi che spazzano via migranti, lotta di classe, tasse esose facendo felice quel grande mondo di mezzo (ceto medio, leggasi) che finirà per impoverirsi da un lato ed arricchirsi dall’altro.
Una perfetta orchestrazione di divisione della classe “per sé” senza nemmeno che sappia di essere “in sé”.
Un capolavoro…
(m.s.)
foto tratta da Pixabay