Peggio di così non poteva andare. La disputa sulle unioni civili si è trasformata, in queste settimane, da dibattito anche forte e virulento sui temi trattati dal disegno di legge Cirinnà a ennesima trattativa di allargamento della maggioranza dell’esecutivo. Denis Verdini e la sua “Ala” hanno colto questa ghiotta occasione e sono entrati formalmente nell’area di governo. Probabilmente saranno ricompensati con un sottosegretariato. È la voce che gira, e forse non è poi così campata in aria…
Viene poi difficile difendere l’alto esempio morale dell’arte politica quando si barattano i diritti con le presenze al governo del Paese. Il tutto, quindi, si sarebbe fatto per portare a casa una legge monca, mutilata rispetto al suo iniziale impianto ma che, secondo il Partito democratico, è un “passo avanti”.
Ho maturato in queste ore la convinzione che un vero “passo avanti” lo si fa quando non si deve rinunciare ad almeno più della metà del passo avanti iniziale che si voleva percorrere. Quando il passo avanti diventa un “passettino”, allora questo non è più la vittoria che si pensava di ottenere al principio.
Infatti, la legge Cirinnà, così come è stata approvata, non è lontanamente vicina agli intendimenti della sua creatrice e generosa paladina. L’esultanza dei cattolici del PD, delle destre di Alfano e Verdini sono la più chiara testimonianza di questa trasformazione.
Non so se si debba trarre una lezione sociologica da tutta questa caotica e ingarbugliata vicenda un po’ parlamentare e un po’ di piazze opposte in tutta Italia, ma sicuramente si può evincere che l’Italia è un luogo geopolitico che non riesce a separare il suo stato di nazione da quello di paese legato a tradizioni e culture ancora pesantemente influenzate da un grovigli di pregiudizi fondati sulla morale cattolica.
E, tuttavia, l’insufficiente passo avanti che oggi si fa con la Cirinnà mutilata, che è una vittoria di Pirro, una sconfitta della laicità in fronte alla concezione religiosa della società e dei rapporti umani, non è addebitabile soltanto all’egrmomia che la Chiesa cattolica ancora esercita in questo Paese. C’è un sentire comune molto più laico e legato a concezioni quasi arcaiche, ad un machismo che sarebbe sbagliato individuare in una cultura del maschile perfetto da far risalire al pater familias romano, ma che non è sbagliato ricercare e trovare nella novecentesca identificazione dell’uomo con il solo istinto eterosessuale.
Si accettano le unioni civili ma non si accetta una famiglia differente da quella costituita tra uomo e donna, dove l’uomo è il soggetto dominante e attivo anche nell’atto procreativo e la donna è l’oggetto subordinato e passivo.
Chiunque negherà che questa visione del ruolo femminile vada per la maggiore, oggi, in Italia. Lo si neghi pure. A parlare a favore, purtroppo, di questa tesi sono le spaventose cifre di donne uccise dai mariti (comunque da uomini) proprio nella civilissima unione familiare cristianamente intesa; e poi ancora tutte le donne vittime di violenze domestiche che non vengono denunciate per paura delle ritorsioni dei coniugi.
Il messaggio che in questi mesi è passato e che dipingeva la famiglia eterosessuale come luogo ideale di crescita dei bambini, mentre quella omogenitorale avrebbe avuto in nuce un elemento di deviazione mentale e comportamentale nel bambino, costretto a crescere con due uomini o due donne, questa visione volutamente distorta dei fatti, che già sono in essere nonostante la Legge, non è soltanto un atto di mera propaganda.
Sarebbe troppo semplice ridurre tutto ad uno scontro tra due visioni della società e della famiglia. Il punto più dolente è l’aderenza che queste distorsioni ad acta hanno nella popolazione e che denotano lo stato pregiudiziale, in quanto ad estensione, come elemento di fondamento (in)culturale diffuso.
Senza troppi giri di parole, sto affermando che non rispetto la libertà di pensiero di chi ritiene che negare dei diritti, in base ad una morale superiore che vuole ispirare l’ordinamento giuridico italiano, sia un atto legittimo. Non esistono diritti esclusivi. Se sono esclusivi, allora si chiamano “privilegi”.
In Italia, il diritto ad avere una famiglia riconosciuta dalla Repubblica io non posso ancora averlo. È questo è un dato di fatto incontrovertibile che smentisce tutte le parole vuote sui “passi in avanti” e sulla vittoria “nonostante tutto”.
Vi ricordate di Remì, il piccolo protagonista di “Senza famiglia”: chi di noi trentenni e quarantenni non è cresciuto con quel cartone animato che riprendeva il bel libro di Hector Malot?
Oggi Remì rivive in Italia la stessa situazione che viveva in Francia ai temi dell’Ottocento: vaga per le strade e le vie di questo Paese senza poter avere una famiglia. A differenza di allora, oggi ci sarebbero tante persone a volergli dare affetto e una casa. Ma la Legge modificata per volere delle gerarchie vaticane e della sacra morale che ne deriva e che si impone su quella laica della Repubblica, non lo consentono.
Caro Remì, prendi la tua arpa, i tuoi cani e la scimmietta… Gira, gira per le strade d’Italia, in tutte le forme che potrai prendere e suona, e racconta quello che senti: solitudine, tristezza e angoscia. Chissà che qualche cristiano, alla fine, non abbia un po’ di altrettanto cristiana compassione…
MARCO SFERINI
26 febbraio 2016
foto tratta da Pixabay