Con l’occupazione nazista della Francia e la nascita del Governo di Vichy anche il cinema subì pesanti conseguenze. La magnifica stagione del realismo francese, che aveva prodotto i capolavori di Jean Renoir, Marcel Carné, Jean Vigo, Julien Duvivier, fu di fatto cancellata. Tra il 1940 e il 1944 vennero realizzate solo pellicole, circa 220, inserite nella più ampia operazione di colonialismo economico e culturale della Germania Nazista.
La più importante, e a tratti unica, casa cinematografica divenne la Continental-Films, creata da Joseph Goebbels, ma diretta da Alfred Greven, già a capo della tedesca UFA, ma soprattutto amico di Hermann Göring. Greven amava la cultura francese e sperava di poter realizzare film capaci di competere con le pellicole statunitensi. Cercò di ingaggiare Jacques Prévert, che rifiutò, al pari di altri cineasti che emigrarono negli Stati Uniti come Renoir, Duvivier l’attore simbolo del realismo Jean Gabin. Tra i grandissimi il solo Marcel Carné rimase in Francia cercando di ritagliarsi spazi di libertà, ma non lavorò mai per Continental-Films. A farlo furono, prevalentemente, o vecchi registi sul viale del tramonto come Maurice Tourneur (L’uccello azzurro) o giovani talenti che, forse inconsapevolmente, volevano fare solo cinema. Tra questi Claude Autant-Lara, Jacques Becker, Robert Bresson e il comico Fernandel, futuro Don Camillo.
Uno dei volti simbolo della Continental-Films fu Pierre Fresnay, pseudonimo di Pierre Jules Louis Laudenbach (Parigi, 4 aprile 1897 – Neuilly-sur-Seine, 9 gennaio 1975), che recitò in diversi film per la casa di produzione gestita dai nazisti (L’assassino abita al 21, La mano del diavolo). Nel dopo guerra fu accusato di collaborazionismo, passò alcune settimane in carcere, prima di essere prosciolto da ogni accusa. Ma la sua carriera ormai era di fatto finita. Un vero peccato visto che l’elegante attore aveva, tra l’altro, recitato in The Man Who Knew Too Much (L’uomo che sapeva troppo, 1934) di Alfred Hitchcock e ne La Grande illusion (La grande illusione, 1937) di Jean Renoir. Anche un’altra protagonista del capolavoro di Renoir venne accusata di collaborazionismo, non aveva lavorato per la Continental-Films, ma era tedesca. Sul suo vero nome gli storici si dividono tra Grethe Gerda Kornstädt e Gerda Olga Justine Kornstädt, ma la storia la ricorda semplicemente come Dita Parlo.
La futura attrice nacque il 4 settembre del 1906 a Stettino, all’epoca in Germania oggi Polonia, dal ferroviere Max Friedrich Robert Kornstädt e dalla casalinga Charlotte Constanze Klarmann. Dopo aver studiato danza, la giovane donna frequentò la scuola di recitazione dell’UFA, la più importante casa di produzione cinematografica tedesca, dove venne notata da Erich Pommer che la impose come protagonista Die Dame mit der Maske (1928) di Wilhelm Thiele.
Bella, bionda, dalla carnagione bianchissima e, a contrario di altre attrici dell’epoca, dalla bella voce. Il cinema stava scoprendo il sonoro, così Grethe Gerda Kornstädt decise di trovarsi un nome d’arte particolare. Attinse dalla lingua francese per sottolineare che lei diceva, che lei parlava, che tradotto suona “dit” e “parle”. Nacque Dita Parlo.
L’attrice divenne ancor più popolare dopo l’interpretazione in Heimkehr (Il canto del prigioniero, 1928), dramma sentimentale diretto da Joe May, interpretato insieme allo svedese Lars Hanson, attore prediletto di Mauritz Stiller. Seguirono nell’ordine: Geheimnisse des Orients (L’imperatrice perduta, 1928) di Alexandre Volkoff, Ungarische Rhapsodie (Rapsodia ungherese, 1928) e Melodie des Herzens (La sposa del Danubio, 1929) di Hanns Schwarz, I bora (1929) di Dimitris Gaziadis e Manolescu (1929) di Viktor Tourjansky.
Forte del successo Dita Parlo iniziò a varcare i confini nazionali. In Francia recitò nell’ultimo film muto diretto Julien Duvivier: Au bonheur des dames (Il tempio delle tentazioni, 1930) ispirato all’omonimo romanzo di Émile Zola (cui attinge anche la serie TV Il paradiso delle signore). Il film racconta la storia di Denise (Dita Parlo) che divenuta orfana si trasferisce dalla provincia a Parigi a casa del vecchio zio Baudu (Armand Bour) il cui negozio di tessuti sta fallendo a causa della concorrenza di un grande magazzino. Un dramma sulle tentazioni e le insidie della grande città. Pochi mesi dopo Dita Parlo recitò in Olanda nel film Tänzerinnen für Süd-Amerika gesucht (1931) diretto da Jaap Speyer.
Sempre più popolare l’attrice venne chiamata anche ad Hollywood per interpretare, come era consuetudine fare all’epoca, le versioni straniere, in questo caso tedesche, di alcuni film statunitensi. Il primo fu Kismet (1931) diretto dal tedesco William Dieterle, seguirono The Sacred Flame (Die heilige Flamme, 1931) ancora diretto da Dieterle questa volta insieme a Berthold Viertel; Tropical Nights (Tropennächte, 1931) di Leo Mittler; The Big House (Menschen hinter Gittern, 1931) per la regia di Paul Fejos. Piccole parti per il mercato tedesco, ma Dita Parlo venne comunque notata da Lloyd Bacon, già spalla di Charlie Chaplin ai tempi della Essanay, che la volle per il film Honor of the Family (L’artiglio rosa, 1931) basato su una novella di Honoré de Balzac. Seguì Mr. Broadway (1933) diretto da Johnnie Walker… più che un film una lunga pubblicità ad Ed Sullivan, appunto Mr. Broadway.
Dita Parlo decise così, dopo l’esperienza non esaltante, di tornare in Europa. La Germania era ormai in mano ad Adolf Hitler, perciò l’attrice scelse di stabilirsi in Francia. Divenne uno dei volti del Realismo poetico. Jean Vigo, il regista anarchico per eccellenza, la cercò con determinazione. Era, infatti, rimasto colpito dall’attrice fin dalla sua interpretazione in Heimkehr. Voleva, infatti, il suo sorriso, il suo candore, la sua innocenza per interpretare Juliette, la sposa de L’Atalante. La pellicola, a lungo censurata, narra la travagliata storia d’amore di Jean (Jean Dasté) e Juliette che viaggiano su una chiatta, guidata da Le Père Jules (Michel Simon), lungo i canali francesi affrontando il matrimonio e la vita. Il resto è storia, inclusa quella magica sequenza in cui i due amanti separati si sognano l’un l’altro (una scena che per anni, accompagnata da “Because the Night” di Patti Smith, è stata la sigla della trasmissione Fuori orario). In merito al rapporto col regista l’attrice ricordò: “Era solito dire ‘fate quello che volete, poi vi dirò’. Eravamo completamente liberi pur guardando continuamente Vigo per sapere se andava bene o no”. Uno dei più grandi film di sempre.
Dolce e sensuale al tempo stesso Dita Parlo era ormai la diva europea per eccellenza (Greta Garbo e Marlene Dietrich lavoravano da anni negli USA). Dopo L’Atalante l’attrice recitò in Rapt (Rapimento, 1934) storia “rurale” di vendetta diretta da Dimitri Kirsanoff. Poi, sempre in Francia, lavorò col tedesco Georg Wilhelm Pabst (La via senza gioia, I misteri di un’anima, Lulù o Il vaso di Pandora, Diario di una donna perduta) nel film Mademoiselle Docteur (1937). Durante la seconda guerra mondiale una spia tedesca (Dita Parlo) si innamora in Grecia di un capitano francese (Pierre Fresnay), porta a termine la sua missione, ma finisce per impazzire. Un buon film noto anche col titolo Salonique, nid d’espions (Salonicco, nido di spie).
Poi un altro capolavoro. Dita Parlo, infatti, interpretò l’unico ruolo femminile ne La grande illusion (La grande illusione, 1937) di Jean Renoir, quello della contadina tedesca Elsa che soccorre il tenente Maréchal (Jean Gabin) e il tenente Rosenthal (Marcel Dalio) in fuga. Un manifesto pacifista, contro l’assurdità della guerra. Ma il conflitto era ormai alle porte.
Dita Parlo recitò successivamente in L’Affaire du courrier de Lyon (1937) di Claude Autant-Lara e Maurice Lehman, Under Secret Orders (1937) di Edmond T. Gréville, La signora di Montecarlo (1938) sia nella versione italiana diretta da Mario Soldati, sia in quella francese, L’Inconnue de Monte Carlo, curata da André Berthomieu, La Rue sans joie (1938) diretto da André Hugon, Ultimatum (1938) l’ultimo film di Robert Wiene, leggendario autore di Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari), poi completato da Robert Siodmak, Paix sur le Rhin (1940) di Jean Choux e L’Or du Cristobal codiretto da Jean Stelli e Jacques Becker.
Nel 1939 l’attrice venne ingaggiata da Orson Welles. Il futuro regista di Citizen Kane (Quarto potere) stava, infatti, lavorando ad una trasposizione cinematografica del romanzo “Heart of Darkness” (“Cuore di tenebra”) di Joseph Conrad e la scelse per il principale ruolo femminile. Ma lo scoppio della Seconda guerra mondiale fermò tutto. Non solo.
A Dita Parlo, che all’inizio del conflitto si era rifiutata di tornare nella Germania nazista decidendo di rimanere in Francia, fu impedito di lavorare sia per il cinema sia per il teatro. Non era tollerata la sua nazionalità tedesca, elemento che fece scattare, quasi in automatico, l’etichetta di “persona non gradita”. Decine di film, due capolavori della storia del cinema, un viso dolce, sorridente e indimenticabile. Tutto finì.
Il 14 maggio 1940 il generale Peter Hering, governatore militare di Parigi, fece tappezzare la capitale di volantini in cui si “invitavano” i cittadini tedeschi, quelli di Danzica e gli stranieri di nazionalità indeterminata, ma di origine tedesca, a presentarsi, pena l’arresto. Gli uomini vennero concentrati nel Vélodrome Buffalo, le donne, il giorno successivo, al Vélodrome d’Hiver. Il 15 maggio Dita Parlo si presentò convinta di poter chiarire la sua situazione, ma venne arrestata. Fu il cosiddetto “Rafle des femmes indésirables” (“Rastrellamento di donne indesiderate”). Con l’attrice migliaia di altre donne, tra loro anche la critica cinematografica e poetessa Lotte Eisner e la filosofa e storica Hannah Arendt. Le recluse vennero nutrite, ma le condizioni igienico sanitarie erano disastrose.
Il 21 maggio Dita Parlo, la sorridente Juliette, la generosa Elsa di due capolavori del cinema, venne internata nel Campo di Gurs ai piedi dei Pirenei. Una palude attraversata da una strada, secondo i testimoni, popolata da topi e pidocchi. Acqua e cibo scarseggiavano. L’attrice venne detenuta in quel luogo disumano insieme ad altre 9000 persone. Dita si fece forza e riuscì a resistere.
Con l’armistizio tra Francia e Germania del 22 giugno, che portò al Governo di Vichy, le porte del campo di internamento si aprirono. Il 24 giugno il comandante Davergne, che gestiva Gurs, liberò i detenuti che avevano le possibilità, fisiche ed economiche, di sostenersi. Pochi giorni dopo, l’8 luglio, un decreto prefettizio ordinò agli ex detenuti del campo di lasciare il dipartimento dei Bassi-Pirenei entro 24 ore, pena il reinternamento. Dita Parlo venne rimpatriata in Germania. Non era mai stata e non divenne mai nazista, ma ingenuamente sperava di trovare un po’ pace. Sbagliava. La Gestapo la “rimproverò” di aver osato “lavare i piedi all’ebreo Dalio” ne La grande illusione. Fu espulsa. Ospite indesiderata anche nel suo Paese natale. Tornò quindi in quello di adozione, la Francia, ma le cose non andarono meglio.
Fu nuovamente arrestata e incarcerata in diverse strutture, tra queste il Campo di Drancy situato in un sobborgo nord Orientale della capitale. Quando venne liberata nel 1943 iniziò a frequentare Henri Chamberlin, vero nome di Henri Lafont, un delinquente che era divenuto uno dei due capi della Gestapo française de la rue Lauriston, spesso chiamata semplicemente Carlingue. Per la “Gestapo francese” l’uomo reclutò ventisette tra assassini, picchiatori, ladri, teppisti, stupratori direttamente dalla prigione di Fresnes. Ulteriore segno della collusione tra malavita e Nazismo, così come in Italia col Fascismo… altro che ordine e disciplina.
Dita finì così in un vortice che la portò a conoscere anche altri delinquenti, che per soldi, erano al servizio dei nazisti. Conobbe il secondo capo della Carlingue Pierre Bonny un ex poliziotto radiato per corruzione; il mafioso Abel Danos uno dei più feroci carnefici della “Gestapo francese”; Joseph Joanovici un mercante ebreo senza scrupoli che commerciava metallo sia coi nazisti sia con la Resistenza; il falso marchese Lionel de Wiett autore di numerose truffe e il dottor Fuchs figura di spicco dei tedeschi a Parigi, che gestiva il mercato nero.
Dopo la Liberazione di Parigi, avvenuta il 25 agosto 1944, gli “amici” dell’attrice furono arrestati e condannati. Henri Lafont venne fucilato il 26 dicembre dello stesso anno. Il giorno successivo fu la volta di Pierre Bonny. Per entrambi le accuse erano molteplici e andavano dal reato di tortura alla collaborazione col nemico. Qualche anno dopo la fine della guerra, il 13 marzo 1952, venne giustiziato anche Abel Danos. Se la cavò, invece, con un solo anno di prigione, scontato dopo vari tentativi di fuga incluso uno verso Israele con passaporto falso, Joseph Joanovici.
Anche Dita Parlo venne arrestata con l’accusa di collaborazionismo. Si trovava nel suo appartamento al numero 65 di Avenue Victor Hugo a Parigi, venne rasata a zero e portata nel campo di Poitiers, poi nel carcere di Noisy-le-Sec. Alcuni quotidiani scrissero “Da La grande illusione alla grande disillusione”. I suoi film vennero censurati. L’Atalante fu “mutilato”, La grande illusione venne rimontato in modo da ridimensionare il suo ruolo. Dita Parlo resistette a tutto. Il suo sorriso non poteva essere spento. Fu liberata solo nel 1946.
Nel 1949 un dossier in cui si approfondiva la sua attività in Francia durante gli anni dell’occupazione, chiarì che Dita Parlo non ebbe reali legami o simpatie per la Germania nazista. Ebbe “cattive frequentazioni”, per usare un eufemismo, che la portarono anche a “lavorare” per il mercato nero, ma senza mai conoscere le reali attività di Henri Lafont e sodali. Non solo, le carte sottolinearono che tra il 1941 e il 1944 l’attrice fu sorvegliata e minacciata costantemente di essere deportata in un campo di concentramento.
Lo stesso anno, il 1949, Dita Parlo sposò il pastore protestante Franck Gueutal, cappellano dell’ultimo carcere in cui la donna era stata reclusa, che l’aiutò a riprendersi dagli orrori della guerra e dagli anni passati tra campi di concentramento e carcere. Rimasero insieme per tutta la vita.
Nel 1950, a dieci anni esatti dalla sua ultima apparizione, Dita Parlo tornò anche sul grande schermo. Venne scritturata, infatti, dal regista André Cayatte per il film Justice est faite (Giustizia è fatta) una storia giudiziaria che si aggiudicò sia il Leone d’Oro a Venezia che l’Orso d’Oro a Berlino. Seguì un’ultima pellicola, un ultimo ruolo da protagonista ne La Dame de pique (La donna di picche, 1965) diretto da Léonard Keigel, già assistente di René Clément.
Segnata da una vita difficile Dita Parlo si spense a Parigi il 12 dicembre del 1971. Oggi riposa insieme al marito, morto nel 1983, nel cimitero di Montécheroux, piccola cittadina di nemmeno 600 abitanti vicino alla Svizzera.
Oggi tra cinema e home video L’Atalante e La grande illusione sono distribuiti nelle versioni integrali, con Juliette ed Elsa protagoniste, ma l’attrice è stata dimenticata e cancellata. Solo tre donne, forse non casualmente, hanno provato a ricordarla. La prima a rompere il muro di silenzio fu Madonna che nel 1992 adottò il nome Dita per il libro fotografico “Sex” e per il successivo album “Erotica”. Quindi fu la volta della modella Heather Renée Sweet che assunse il nome Dita von Teese per omaggiare l’attrice tedesca. Infine la letterata e scrittrice franco-belga Diane Ducret ha ricordato la detenzione dell’attrice nel campo di Gurs nel suo romanzo “Les Indésizable” uscito nel 2017.
Nazista per i francesi, anti nazista e filo ebrea per i tedeschi, Dita Parlo passò più tempo in campi di concentramento e carceri che sul set, ma resta, anche per la sua triste storia, indimenticabile… come il sorriso timido e ammaliante di Juliette ed Elsa.
redazionale
Bibliografia
“Jean Vigo” di Maurizio Grande – Castoro
“Jean Renoir” di Carlo Felice Venegoni – Castoro
“La mia vita, i miei film” di Jean Renoir – Marsilio
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2017” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
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