L’Europa vede il futuro in rosa, tanto che il potentissimo ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble può permettersi di ironizzare: «La crisi? Quale crisi?». In realtà c’è un bel po’ di forzatura nel peana intonato dalla Bce nel suo bollettino mensile e dalla Commissione europea nelle sue Previsioni di primavera. Per l’Italia, poi, le cose vanno decisamente peggio che per gli altri e tra una pacca sulla spalla e l’altra echeggia la richiesta di «riforme strutturali» necessarie. Formula che, quando viene pronunciata a Bruxelles o a Berlino, suona sempre un bel po’ sinistra.
Tutto bene, comunque? Insomma, fino a un certo punto. La disoccupazione resta alta e nel sud, cioè in Italia, Grecia e Spagna, particolarmente alta. Certo la disoccupazione scende più rapidamente del previsto e è di solo mezzo punto inferiore ai livelli pre-crisi. La Bce la calcola al 9,5%, ma non in Italia dove invece è prevista all’11,5% quest’anno per scivolare poi all’11,3% l’anno prossimo. Poi c’è il tasso di disoccupazione giovanile che invece è ovunque altissimo, ma ci si può consolare scoprendo che il rapporto tra la disoccupazione totale e quella giovanile non è variato molto rispetto alla fase precedente la crisi. Insomma, i giovani erano penalizzati di bruttissima anche prima, e perché mai il dato sia consolante resta misterioso. Non che vada ovunque allo stesso modo. In Germania il tasso di disoccupazione giovanile è solo 1,7 volte più alto della disoccupazione totale, mentre nella media dell’area è 2,2 volte più alto. Da noi va peggio: il numero dei giovani senza lavoro e quindi senza reddito è 3 volte più alto della disoccupazione totale.
La vera nota dolente è che queste percentuali, a conti fatti non sconsolanti, sono finte e lo stesso studio della Bce lo ammette. Infatti «il livello di sottoutilizzo del lavoro resta elevato e considerevolemente superiore a quello suggerito dal tasso di disoccupazione». Intorno al 15%, sempre secondo la Bce. Però non basta perché nei paesi del Sud bisogna aggiungere un 3,5% di «lavoratori scoraggiati», che il lavoro nemmeno lo cercano più. Così il tasso reale lievita sino al 18%. Ma niente paura, perché «le informazioni ricavate dalle indagini indicano costanti miglioramenti nel prossimo futuro». Insomma, se la crisi non è proprio finita, prima o poi finirà .
Dunque sia la Banca che la Commissione stappano lo champagne. La ripresa c’è, gatrantisce Eurotower, anzi «si consolida e si amplifica» mentre calano i rischi di retromarcia dovuti tutti e solo «alle condizioni globali». In ogni caso il bazooka di Draghi è sempre a disposizione. Se necessario il Quantitative Easing verrà prolungato oltre dicembre e, nel caso, rafforzato
In mezzo al tripudio generale, la penisola ha però poche ragioni di esultare. È vero che il tasso di crescita 2017 per l’Eurozona è stato rivisto al rialzo, dall’1,6% all’1,7% e quello della Ue pure, dall’1,8 all’1,9%. L’Italia però non partecipa al balzo, le stime di crescita sono anzi dello 0,9% contro l’1,1% messo nero su bianco dal governo nel Def. Per quel già risicato 1,1% bisognerà aspettare l’anno prossimo. Forse. Il debito pubblico invece salirà , dall’attuale 132,6% al 133,1%. Poi, nel 2018, dovrebbe scendere, ma per tornare ai livelli attuali: 132,5%.
Perché si sa, «persistono le fragilità strutturali», grava l’ «incertezza politica», pesa «il lento aggiustamento del sistema bancario». Insomma, conclude il presidente della Commissione Ue, e colomba, per antonomasia Juncker: «Il Paese ha bisogno di riforme strutturali che in parte sono state introdotte, per esempio sul mercato del lavoro. Per questo il governo deve intraprendere sforzi consistenti». Essendo il modello rappresentato dal Jobs Act, è discutibile quanto ci sia da gioire.
Per la verità , infine, oltre il bolettino di guerra dell’occupazione, un’altra area meno soleggiata il bollettino della Bce la indica: «Le spinte inflazionistiche restano moderate e non hanno ancora mostrato segnali convincenti di una tendenza al rialzo». Se alle aride cifre si sommano le amichevoli, ma ferme, esortazioni che Schäuble rivolge all’Italia perché riformi molto di più, non è difficile prevedere che in futuro, da noi, ci sarà ben poco da brindare.
ANDREA COLOMBO
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