Che non vi sia la benché minima voglia di aprire una via diplomatica per la risoluzione del conflitto in Ucraina, Biden e gli altri capi di governo e di Stato, ritrovatisi a Bruxelles per i vertici del G7, della NATO e del Consiglio europeo, lo hanno chiaramente detto, senza troppi giri di parole. Tutti i telegiornali della sera, francesi, italiani e d’oltreoceano hanno preceduto le edizioni dei quotidiani nel definire quella di quarantotto ore fa una giornata in cui il tema centrale sono state le armi e non la diplomazia al lavoro.
Quante, quali, come e quando fornirle al governo di Zelens’kyj, mentre i fianchi est dell’Alleanza atlantica si rafforzano da Galizia subcarpatica fino al Mar Nero. Il completamento di una linea del fronte, che somiglia sempre più ad una riedizione della Cortina di ferro, è la risposta all’avvicinarsi della guerra ai confini del territorio NATO: i bombardamenti con i missili ipersonici nell’ovest ucraino, a poche decine di chilometri dalla Polonia e da Slovacchia, Ungheria e Romania, erano un’altra risposta ancora. Quella di Putin all’aumento dell’invio di armamenti all’esercito e alle milizie territoriali di Kiev.
Non c’è spazio per la mediazione in questo modo: l’Occidente democratico e ipocritamente fiero dei propri valori di convivenza civile, porta avanti il conflitto e non pensa minimamente ad un cessate il fuoco. Non lo propone nemmeno, con l’argomentazione per cui dall’altra parte la pace non la si vuole e, del resto, mica si può chiedere agli ucraini di arrendersi: questa è una giaculatoria interventista che si sente ogni giorno e che viene rivolta contro i pacifisti e anche contro coloro che magari pacifisti non sono ma che osano criticare la politica delle grandi potenze e l’asservimento europeo a queste stesse.
Tutti, ma proprio tutti, propagandisticamente devono sostenere di non volere una escalation del conflitto. Invece non fanno altro se non sostenere ogni azione che esacerbi i contrasti fra le parti, aumenti il livello dello scontro senza rendersi in prima persona attori della guerra stessa. Si combatte per interposto governo, per interposto popolo, per interposti civili che crepano ogni giorno sotto le cannonate, le bombe e i missili russi. Complice una inedia che sopraggiunge dopo settimane di assedio, soprattutto i più anziani e deboli sono le vittime tanto della criminale aggressione di Putin all’Ucraina quanto dei tatticismi cinici degli USA, della NATO e dell’Europa.
Il governo italiano è perfettamente inserito in questa cordata atlantista e non si fa promotore di nessuna iniziativa volta ad incrinare l’unanimità europea sul sostegno armato al governo di Kiev. I partiti della maggioranza, fatta eccezione per la posizione espressa da Giuseppe Conte a nome del M5S, si riconoscono nella legittimità costituzionale autoassolutoria (ed autoattribuitasi fino a che non dovesse essere smentita dalla Consulta) di controbilanciare l’invio degli armamenti con l’umanitaria accoglienza delle centinaia di migliaia di profughi che da Leopoli arrivano al nostro confine nordorientale.
Il racconto della guerra, dunque, funziona così: siccome la guerra è inevitabile, perché Putin l’ha voluta e la sta facendo, noi occidentali che siamo bravi e buoni, democratici e liberali, nemici delle dittature che ostacolano i nostri piani di espansione e di controllo di tante risorse e materie prime in varie parti del mondo, non volendo scatenare la terza guerra mondiale che facciamo? Diciamo che la NATO no, non entra nel conflitto ma, allo stesso tempo, siamo pronti a rispondere occhio per occhio (…e il mondo sarà cieco…) se i russi useranno armi chimiche.
In realtà l’hanno già fatto, a quanto pare… L’uso degli ordigni al fosforo bianco è uso di armi chimiche. Ma Biden l’avvertimento a Putin lo manda quando la sottile linea rossa (un po’ “obamiana“, che ci riporta a quanto accadde in Siria non molto tempo fa…) è già stata oltrepassata. Ed allora qual’è il punto di non ritorno? Qual’è l’attimo in cui la NATO abbandonerà la farsa del non interventismo diretto e risponderà a Putin con le armi?
Pare debba corrispondere all’esternità del conflitto oltre i confini in cui adesso si trova. Se dovesse raggiungere uno dei paesi della NATO, l’Alleanza dovrebbe intervenire in sua difesa. Su questa parola si giocheranno fiumi di commenti e analisi se – qualunque dio possibile e immaginabile ce ne scampi – la guerra dovesse allargarsi ai paesi confinanti con l’Est europeo in fiamme. In realtà, i due blocchi che si fronteggiano (Russia da un lato e fronte atlantico dall’altro) sanno che stanno già da un mese giocando una partita sulla pelle del popolo ucraino e che quei morti gli servono per favorire le condizioni spietate del cinismo bellico che vanno a costituire le basi di una trattativa (perdonate il termine…) “di pace“.
La pace qui non c’entra proprio niente: non è nelle intenzioni di Putin e non lo è in quelle dei governi occidentali. La partita è stata aperta e nessuno intende chiuderla prima che le posizioni siano meglio definite. I russi hanno bisogno di estendere il terreno conquistato, di far cadere le principali città, di assediare permanentemente Kiev senza entrarvi e provare a far capitolare così il governo che lì, in Ucraina, rappresenta il fronte occidentale.
USA, NATO ed europei, d’altro canto, non possono rischiare di portarsi il conflitto in casa, ma nemmeno possono fare a meno di alzare l’asticella del possibile scontro globale nel momento in cui Putin la alza a sua volta.
I segnali di una decelerazione in questo senso non sono ancora visibili, nonostante le tante promesse pubbliche e le dichiarazioni a Bruxelles e al mondo per fare intendere che il fronte occidentale rispetterà i suoi stessi intendimenti e non si lascerà trascinare in una sovramodulazione del conflitto, in un suo allargamento territoriale anche in presenza di provocazioni russe.
Difficile poter fare una classificazione proprio delle provocazioni: ogni spostamento fisico dei grandi leader occidentali, ogni loro parola è un chiaro messaggio con la duplice valenza politica e tattica. Si recepiscono gli umori dell’alta finanza, dei mercati; si porge un attimo l’orecchio al sentimento popolare attraverso i sondaggi e poi si decide insieme ai consiglieri militari, ai grandi strateghi del Pentagono, alle informazioni dei servizi di sicurezza, a tutte le quinte colonne presenti sul campo da mesi e mesi.
La visita di Biden a Rzeszow, all’82esima divisione USA aviotrasportata, a poche decine di chilometri dal confine con l’Ucraina è proprio questo: un messaggio politico di rassicurazione anche militare, a nome dell’Alleanza atlantica, della Repubblica stellata e di tutta quell’Europa che va al traino degli Stati Uniti d’America. Ma è, di contro, anche un avvertimento a Putin, come dire: ecco, noi siamo qui, ti guardiano quasi in faccia, osserviamo la guerra da un metro al di qua del confine dove si svolge.
Spazio alla diplomazia, dunque, non ve ne è nemmeno in questi incontri bilaterali tra Washington e Varsavia. Tutto il contrario. Ogni mossa è tesa a rafforzare il nuovo fronte della NATO ad Est, mentre la controffensiva del Cremlino si limita a disegnare sul calendario un cerchietto rosso attorno alla data del 9 maggio, simbolicamente emblematica: la sconfitta del Terzo Reich da parte dell’URSS, la cosiddetta “Den’ Pobedy” (“Giornata della Vittoria“), trasformata oggi nella preconizzata fine di una guerra che il minculpop putiniano costringe a definire “operazione militare speciale“.
Anche le dichiarazioni dei generali russi, circa l'”obiettivo minimo del Donbass“, corroborano la tesi per cui Mosca non sia tanto in difficoltà sul piano militare, avendo uno degli eserciti più potenti al mondo, possedendo armi che sarebbero letali per qualunque nazione e popolo, quanto sul piano internazionale, sull’impatto che le sanzioni stanno avendo e su un malcontento popolare che potrebbe portare, su un lungo periodo di guerra, ad un accrescimento del dissenso, a fronde interne al Cremlino, a dissensi strutturati e organizzati.
Qui nemmeno si vede una possibilità di tregua politica, ma soltanto dei sommovimenti nebulosi, alimentati da una ridda di ipotesi occidentali che sono suffragate da una serie di desiderata che non troveranno certo una concretizzazione lineare nel prossimo futuro.
Tocca ragionare su quello che possiamo dire “certo“, al di là delle reciproche tempeste propagandistiche diffuse da una coralità massmediatica impressionante. Ed al momento non vi è nessun spazio per un incedere diplomatico, messo all’angolo dal tatticismo atlantico che spinge gli ucraini ad un sacrificio estremo nel nome del loro paese come “baluardo democratico” contro il Satana comune, mentre la mappa della geopolitica occidentale si definisce sempre meglio e sempre più particolareggiatamente.
MARCO SFERINI
26 marzo 2022
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