Il cinema italiano dopo la straordinaria stagione del Neorealismo, arrivò tardi, rispetto ad esempio alla Francia, alle “nuove ondate” che stavano caratterizzando il cinema europeo. All’involuzione politica e sociale dell’Italia democristiana, corrispose, infatti, un’involuzione contenutistica e formale del cinema. I primi grandi film di Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, erano rare gemme di un periodo modesto che ripeteva stancamente riti e schemi troppo simili al periodo dei “Telefoni bianchi” che caratterizzò il nostro cinema sotto il regime Fascista.
Fu solo negli anni sessanta che a Fellini ed Antonioni, si aggiunse una magnifica generazione di cineasti: dallo scrittore Pier Paolo Pasolini, all’allora giovane poeta Bernardo Bertolucci, da Ugo Gregoretti che colgo l’occasione per ricordare a poche settimane dalla sua scomparsa a Lina Wertmuller, da Tinto Brass a Marco Bellocchio, da Francesco Rosi ad Ermanno Olmi, da Francesco Maselli a Gillo Pontecorvo, da Paolo e Vittorio Taviani a Nanny Loy, da Mauro Bolognini a Valerio Zurlini, da Ettore Scola a Elio Petri, Gian Vittorio Baldi a Pietro Germi, fino ad arrivare al più atipico e anarchico di tutti, Marco Ferreri. In pieno sessantotto andò controcorrente affermando “la rivoluzione si fa con la rivoluzione, non facendo film” e realizzò una pellicola provocatoria e spiazzante: Dillinger è morto.
Nato a Milano l’11 maggio del 1928, Ferreri si avvicinò al cinema come comparsa in due film di Alberto Lattuada (Il cappotto e La spiaggia), per poi divenire soggettista e produttore. In questa veste andò nella Spagna franchista, li conobbe lo scrittore antifascista Rafael Azcona (Logroño, 24 ottobre 1926 – Madrid, 24 marzo 2008). Dalla collaborazione tra i due nacquero i primi film del regista: El pisito (L’appartamentino, 1958), Los chicos (I bambini, 1959) e El cochecito (La carrozzella, 1960) in cui gli elementi sociali tipici del neorealismo venivano letti in chiave satirica e grottesca. Caratteri che definirono il cinema di Ferreri. Nel 1961 il regista fece ritorno in Italia, Azcona lo seguì divenendone l’abituale sceneggiatore.
I suoi primi film in Italia, Una storia moderna – L’ape regina (1963), La donna scimmia (1964), Marcia nuziale (1966), L’harem (1967), uniti ad episodi di film collettivi, oltre a cementare l’amicizia del regista con attori quali Ugo Tognazzi e Marcello Mastroianni, portarono sul grande schermo i problemi, le condraddizioni, gli squilibri della società italiana, mostrando i tabù, le convenzioni morali, i pregiudizi della società borghese, smontando la “gabbia” del matrimonio e la sacralità della famiglia. Pellicole che attirarono, e non poco, l’attenzione censura: la versione integrale de L’ape regina venne rilasciata solo nel 1984!
Con L’harem si chiuse un ciclo per Ferreri, ma le mobilitazioni del ’68, cui il regista aveva attivamente e convintamente partecipato, ne aprirono un altro. Il regista, che faceva film impegnati e in anticipo sui tempi (a proposito de L’harem disse: “La nostra è una società maschile, fatta per gli uomini, in cui le donne sono l’ultima colonia…che gli uomini non vogliono perdere”), spiazzò tutti e, da un’idea Rafael Azcona sceneggiata insieme a Sergio Bazzini (Pistoia, 26 febbraio 1935), realizzò in pieno ’68 un film che col ’68 non c’entrava nulla: Dillinger è morto. Un pellicola praticamente senza soggetto, incentrata quasi esclusivamente sul suo protagonista, Michel Piccoli. L’attore, nato a Parigi il 27 dicembre del 1925, aveva lavorato, tra gli altri, per Jean Renoir, Luis Buñuel, René Clément, Jean-Luc Godard, Costa-Gavras. Per Ferreri era la prima, e forse unica, scelta. Lo raggiunse sul set del film La Chamade diretto da Alain Cavalier per proporgli alcune pagine del copione. L’attore accettò con entusiasmo e, salvo alcune indicazioni, ebbe carta bianca per interpretare il ruolo.
Nel film anche Anita Pallenberg (Roma, 6 aprile 1942 – Chichester, 13 giugno 2017) modella e stilista, nota ai più per essere stata a lungo la compagna di Keith Richards, lo straordinario chitarrista dei Rolling Stones, e Annie Girardot (Parigi, 25 ottobre 1931 – Parigi, 28 febbraio 2011) già “donna scimmia” nel precedente lavoro del regista, cui inizialmente era stato proposto il ruolo poi andato alla Pallenberg.
Dillinger è morto venne girato nelle abitazioni del pittore Mario Schifano, del quale si vedono alcune opere, e nella cucina della villa di Ugo Tognazzi. La fotografia venne curata da Mario Vulpiani (Roma, 15 febbraio 1927). La prima si tenne il 23 gennaio del 1969.
Roma. Glauco (Michel Piccoli) un ingegnere che progetta maschere antigas, torna a casa dopo una giornata di lavoro come tutte le altre. La moglie Anita (Anita Pallenberg) è a letto indisposta e lui, aggirandosi per casa quasi fosse un estraneo, accende la televisione ed inizia a prepararsi una ricca cena. Rovistando nei ripostigli della cucina Glauco trova, avvolta in un giornale che riporta in prima pagina la notizia della morte del famoso gangster John Dillinger, una vecchia pistola. La smonta, la pulisce, la vernicia di rosso a pallini bianchi. Continua a cucinare. Poi va nella camera della cameriera Sabina (Annie Girardot), da poco rientrata, e si intrattiene con stanchi giochi erotici. Glauco torna così in sala, proietta vecchi filmati delle vacanze, mima il suicidio. Sale quindi nella camera da letto, guarda la moglie dormire e, come se niente fosse, le mette un cuscino sulla testa e le spara. Sempre distaccato, prende alcuni gioielli ed esce di casa. Raggiunge il porto e, dopo aver donato i gioelli al capitano (Carole André, benché non accreditata, poi “Perla di Labuan” nello sceneggiato televisivo Sandokan), si fa assumere come cuoco e parte per Tahiti. Una fuga dal mondo illusoria quanto impossibile.
L’assurdo quotidiano, il sesso, il cibo, gli oggetti, i corpi (con particolare riferimento alle mani), la fuga impossibile: una delle migliori sintesi del cinema di Ferreri che riprese le sperimentazioni cinematografiche delle avanguardie e dell’underground. Nel film non succede praticamente nulla, non c’è una vera e propria trama, e i gesti vengono ripetuti all’infinito. Un capolavoro “antinarrativo”.
Alla sua uscita molti lo criticarono per la violenza ingustificata, la stessa censura diede il nulla osta di proiezione in pubblico “a condizione che ne sia vietata la visione ai minori degli anni quattordici, per il clima di particolare tensione nevrotica sul quale è ambientata la vicenda e per alcune scene di nudo”. Acclamanto in Francia, Dillinger è morto, in Italia si è visto poco, è presente su RaiPlay e recentemente è stato trasmesso da Sky Arte.
Il titolo del film riprende quello del vecchio giornale in cui il protagonista trova la pistola rievocando, anche con immagini di repertorio, le gesta di Dillinger pochi anni dopo alla base del film di John Milius.
Nelle opere successive Marco Ferreri continuò ad affrontare i temi a lui cari, da citare L’udienza e La grande abbuffata. Un cineasta visionario, grottesco, precursone, anarchico, genale, provocatorio, libero, laico, introverso e controverso e maledettamente dimenticato.
redazionale
Bibliografia
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: immagine in evidenza, foto 4, 5 Screenshot del film Dillinger è morto, foto 1 da it.wikipedia.com, foto 2 Screenshot del film Una storia moderna – L’ape regina, foto 3 da gettyimages.com.