Donald Trump l’istrionico, l’urlatore, il finto simpaticone che regala pessime battute su ogni argomento politico e sociale che gli capiti a tiro e che, così, produce gaffes in quantità industriali.
Del resto lui è un miliardario, di industrie probabilmente se ne intende, e quindi questa tendenza ad essere “magnate” la trasmette sul piano politico a spron battuto, senza soluzione di continuità alcuna.
Come può la retorica securitaria, tutta intrisa di banalità e risposte superficiali ai veri problemi di una America sempre meno potenza mondiale e sempre più al centro delle crisi economiche, diventare attraente per gran parte del popolo statunitense?
Forse la risposta a questa domanda è già inclusa nella domanda stessa: la crisi capitalistica, le bolle speculative, lo spostamento del baricentro da Washington ad altri grandi poli dell’economia come la Cina, l’India, il Giappone, la Russia stessa; tutto ciò ha fatto degli Usa una potenza non in declino ma concorrente rispetto ad un precedente piano di monopolio della forza economica e bellica che, fino a qualche tempo fa, era riconosciuta come incontrastata, soprattutto dopo la fine dell’Unione Sovietica e la scomparsa dei blocchi contrapposti.
Poi, nel corso dei trent’anni successivi alla fine della guerra fredda e alla caduta del muro di Berlino, i riposizionamenti hanno ripreso corpo, le economie si sono polarizzate e, a cominciare, dalla Russia e dalla Cina, si sono creati nuove alternative all’unica visione capitalistica mondiale di stampo americana.
Donald Trump è la fine di un lungo percorso di disarticolazione di quel progetto di stato-sociale che da Roosevelt in poi gli Usa avevano costruito guardando ad una idea sociale delle relazioni tra pubblico e privato, provando a privilegiare il primo rispetto al secondo dentro una logica di mercato. Poi venne Ronald Reagan e, in piena sintonia con la signora Thatcher, mise in essere un asse conservatore che riportò la grande repubblica stellata ad essere la patria del liberismo sfrenato, di un turbocapitalismo che si sarebbe poi manifestato pienamente negli anni successivi.
L’incertezza costante della politica interna americana non ha distratto comunque nessuno dei suoi presidenti dal considerare quel “ruolo salvifico”, di potenza predestinata a dettare una morale superiore al mondo intero, che l’ha condotta a ricercare la salvaguardia e l’aumento degli interessi economici dei sostenitori della Casa Bianca attraverso le guerre di “esportazione della democrazia” sparse per due continenti.
Obama non ha mantenuto nemmeno la promessa di chiudere Guantanamo, un vero e proprio lager degno del peggiore ricordo di segregazione che si possa ritrovare nelle pagine nere della storia.
Donald Trump fa il discontinuo invece: lui sì che vuole rinnovare gli Usa anche in politica estera! “Americanismo e non globalismo” ha proclamato dal palco della Convention repubblicana di Cliveland. Tutto per gli Stati Uniti e poi semmai l’attenzione del suo governo potrà spostarsi anche sugli alleati, sulle alleanze che li riuniscono: compresa quella Nato così anacronistica, così allargata a confini geopolitici che sono sempre più labili e che perdono pezzi importanti in quanto a sostegno diretto e immediato.
La recente crisi turca, seguita al golpe farsa di Ergodan, ha destabilizzato l’amministrazione americana lasciandola interdetta: per due ore e mezza il silenzio assordante di Obama e del Pentagono si è fatto sentire nell’incertezza che dominava sui cieli di Istanbul e di Ankara dove il presidente girovagava in attesa che tutto tornasse a posto e lui potesse mettere in atto la feroce repressione di questi giorni e ore.
Poi, la richiesta da parte di tutte le potenze di “stabilità”. Ma quale stabilita? Quella ricercata dalla Nato che ha le sue basi nella Turchia vicina alla polveriera mediorientale? Quella della Russia che ha portato, a poco a poco, vicino a sé anche il sultano Erdogan?
Oppure quella degli Usa che tentano di riguadagnare terreno in un ginepraio di interessi commerciali che gli sono completamente sfuggiti di mano?
Donald Trump ha delle certezze anche in questo ambito di politica internazionale: lui, dice, non vuole dire apertamente quali piani ha per l’Isis. Scoprire le carte sarebbe un aiuto indiretto al presunto nemico numero uno: un califfato nato dalle ceneri del finanziamento di una parte dell’opposizione siriana a quell’altro galantuomo che risponde al nome di Assad.
Insomma, le sicurezze di Trump sembrano essere le sicurezze di un’America che ha smarrito la sua identità e che la ricerca in una autarchia immorale, economicamente fondata su una solidità capitalistica e un liberismo per niente temperato, e che spera di ritornare potenza tra le potenze, a scapito dei diritti civili, di quelli sociali, dimenticando Guantanamo e forse tanta parte di una storia di massacri e violenze che segna i secoli della nascita e della crescita di uno degli stati più nocivi per i popoli e per l’intero pianeta.
MARCO SFERINI
22 luglio 2016
foto tratta da Pixabay