Die Linke o barbarie! La Germania ad un nuovo bivio storico

La partita elettorale che si gioca tra poche ore in Germania diventa, date le premesse attuali soprattutto per quanto concerne la politica internazionale, un fattore quasi dirimente per la...

La partita elettorale che si gioca tra poche ore in Germania diventa, date le premesse attuali soprattutto per quanto concerne la politica internazionale, un fattore quasi dirimente per la tenuta prossima di un’Unione Europea claudicantissima. L’ombra dell’internazionale nera di Trump, Musk e Bannon (saluti neonazisti compresi alla convenzione dei conservatorissimi del CPAC) si affaccia sul Vecchio continente e nella Repubblica federale tedesca prende le sembianze del fanatismo di Alternative für Deutschland.

Centristi e affini giurano e stragiurano: in caso di loro prevalenza rispetto al resto del complicato quadro politico teutonico, non si faranno imbrigliare in alleanze di governo con l’AfD. Significherebbe, in caso contrario, la sconfessione, da settant’anni a questa parte, della pregiudiziale antifascista e antinazista. Perché a questo punto siamo arrivati: dai vecchi faziosissimi ed estremissimi “republikaner” ai nuovi sostenitori di un nazionalismo pangermanico che ricorda nemmeno troppo latamente il “völkische Bewegung” (“movimento völkisch“) dalla caratura populistissima.

Quello fu il brodo di coltura del nazionalsocialismo hitleriano e sappiamo come è andata a finire appena venti anni dopo la fine della Prima guerra mondiale. L’AfD si nutre di pulsioni endemiche, strutturatesi nella società dell’insoddisfazione, del disagio manifesto e diffuso forgiato da una crisi economica che, dalla pandemia allo scoppio della guerra in Ucraina, è venuta sempre più crescendo e ha gettato nello sconforto milioni di tedeschi. Tanto è vero che i dibattiti televisivi su Das Erste e sulla ZDF offrono lo spettacolo cinico del calcolo dei migranti come palestra di combattimento di argomentazioni letteralmente accalappia voti.

Ci casca – si fa per dire… – anche Sahra Wagenknecht, scissasi da Die Linke e creatrice di una alleanza (BSW) che ha i colori foschi di un rossobrunismo che alterna giustizia sociale e xenofobia, filoputinismo e sguardi ammiccanti ad un ritorno di un populismo fintamente progressista con cui cercare una saldatura tra rabbia sociale e nazionalismo ipocritamente moderato. Anche dal confronto fra i candidati alla carica di cancelliere, non emerge molto di più rispetto alle settimane precedenti se non il doversi repentinamente adeguare ad una vera e propria rivoluzione internazionale.

Donald Trump, e in particolare il suo vice Vance, sono entrati a gamba tesa nella competizione elettorale tedesca. Scontatissimo l’appoggio all’AfD che sfiora percentuali inquietanti. Scholz e i socialdemocratici cercano una via di compromesso tra ceto medio e ceti neoproletari, sostenendo, ad esempio, che il sistema misto sanitario, pubblico e privato al tempo stesso, sarà esteso alle fasce di popolazione meno abbienti. Ma pare davvero una bassa tattica politica meramente elettorale che non può attrarre voti dal centro dello schieramento e tanto meno da sinistra.

Piuttosto l’SPD rischia grosso in quanto ad emorragia di consensi. Non di meno i Verdi che sono tra i più risoluti sostenitori del riarmo e della continuazione della guerra USA-NATO versus Mosca. Sgomitano i liberali per farsi posto in un nuovo governo a guida anche CDU/CSU, ma tutte le ricette economiche proposte sono bocciate dall’IFO Institut (Istituto di ricerche economiche, in tedesco suona così: “wirtschaftsforschungsinstitut“), autorevole voce terza rispetto all’agone politico federale.

Si salva solo Die Linke (“La Sinistra“) che, proponendo la tassazione patrimoniale dei miliardari, se davvero potesse andare al governo non creerebbe un buco di bilancio peggiore rispetto a quello attuale. Il governo Scholz, non diversamente dai precedenti merkeliani, ha seguito la traiettoria della condivisione delle scelte europee in materia prettamente economica e, quindi, ha puntato su una commistione tra pubblico e privato che è andata a vantaggio di un ceto medio-alto e ha creato grandi disagi per i nuovi poveri: tutta una categoria di cittadini che ha finito con l’andare ad ingrossare le fila dell’AfD da un lato e, soltanto nell’ultimo periodo, proprio innanzi al pericolo della risalita dei neonazisti nei sondaggi, anche di Die Linke e di BSW.

Proprio la crisi del debito rischia di minare una comunque precaria stabilità del sistema tanto dell’impresa tedesca, ergo della classe padronale e finanziaria, quanto dell’Europa impropriamente riconosciuta come tale nel monetarismo a tutto spiano della BCE. Le soluzioni per porre un freno alla riemersione di estremismi populisti e di destra autoritaria, xenofoba ed omofoba, dovrebbero trovarsi in una riduzione del debito pubblico mediante una imposta sui capitali e un contenimento del fenomeno inflattivo. Tutto questo non può essere affrontato con le vecchie politiche di austerità. Soltanto Die Linke, rappresentata da una energica Heidi Reichinnek, ha nel programma la tassazione dei miliardari.

Tutti gli altri partiti propongono ricette possibiliste che riguardano una compenetrazione tra interessi privati e pubblici, lasciando chiaramente intuire che l’ispirazione delle politiche dei loro prevedibili governi sarebbe dettata dai primi a discapito dei secondi. Il compromesso non fa che aprire nuove faglie in cui AfD si insinua con una propaganda becera di cui il filoputinismo è solo, davvero, l’ultimo dei problemi. Sono i proconsoli del trumpismo, il punto di riferimento dell’internazionale nera e mirano a fare della Germania la chiave di volta di una Europa dei nazionalismi.

La crisi verticale del modello occidentale, quella, per intenderci, difesa a tutto spiano dal macronismo agonizzante, è la crisi del capitalismo liberale che ha avuto la pretesa di tentare un legame ultimo tra sistema neoliberista e democrazia. Bidenismo ultimo e merkelismo d’antan hanno, al pari del draghismo, provato questa saldatura emergenziale in un contesto di rapida evoluzione in cui il mercato, stretto nella morsa della crisi globale, ha risposto mettendo da parte proprio i regimi democratici.

Lo ha fanno nel nome di una sopravvivenza entro i termini della grande tragedia ambientale che ne mina alla radice tutte le contraddizioni e fa venire a galla l’insostenibilità manifesta tra capitale e natura, tra capitale e lavoro, tra capitale e sviluppo. I tempi lunghi di smaltimento delle grandi instabilità economiche dei vecchi imperi transnazionali (ad iniziare dal Regno Unito) avrebbero dovuto insegnare ai fenomenali teorici dell’autoregolamentazione del mercato che le politiche di austerità si pagano anzitutto sul piano sociale e, quindi, elettoral-politico.

Thomas Piketty nota nel suo “Il capitale nel XXI secolo” (nello specifico a pagina 870) che «L’esempio storico più interessante di una cura prolungata di austerità è quello offerto dal Regno Unito nel XIX secolo. […] ci volle un secolo di eccedenze primarie (circa 2-3 punti di PIL annuo in media dal 1815 al 1914) per liberarsi dell’enorme debito pubblico ereditato dopo le guerre napoleoniche». Raramente i governi, ed anche i popoli, pensano ai processi economici su un così lungo periodo: le loro politiche mirano al prossimo futuro senza, spesso, tenere conto degli effetti che si sono registrati dopo veri e propri stravolgimenti epocali. Come ad esempio la riconfigurazione della mappa europea dopo la Rivoluzione francese.

Quegli effetti, diversi eppure simili nella loro connotazione nazionale e continentale, si possono trovare nella Germania di oggi, settant’anni dopo la Seconda guerra mondiale: il tentativo di costruzione dell’Europa dei popoli, della solidarietà e della compenetrazione tra le differenti economie nazionali è fallito sotto il peso di un bipolarismo da Guerra fredda che ha separato il Vecchio continente in due settori marcatamente antitetici: economia di mercato da un lato, economia pianificata dall’altro. In questo senso, la Germania, nella sua riunificazione postuma, l’esempio più lampante dell’incontro-scontro fra due idee di mondo che, da alternative, si sono sempre più venute somigliando.

Dove l’AfD è più politicamente permeabile in seno alla società tedesca? Ad est, nei lander della vecchia Repubblica Democratica (DDR): proprio lì dove l’ex SED (quindi la PDS, oggi Die Linke) otteneva il maggior numero di consensi non tanto sull’onda del nostalgismo del severissimo e opprimente apparato burocratico filosovietico, ma come estremo tentativo di non vedere smantellato lo stato sociale, al posto del quale si prospettava già lo stato mercatista e liberista moderno senza più alcuna tutela per le classi più fragili e indigenti.

L’eredità di questa divisione verticale tra ovest ed est sovrasta qualunque dibattito e qualunque idea di prossimo futuro che i tedeschi pensano di poter immaginare. Soprattutto se prendono in considerazione l’economia di guerra sposata senza se e senza ma dal governo Scholz: con Macron, indubbiamente uno dei più ossessionati sponsor dell’aumento delle spese militari, dell’ampliamento delle basi, del più obbediente atlantismo in funzione antirussa. I tedeschi hanno capito che CDU e SPD muovono nella direzione del rifinanziamento del privato a scapito del pubblico.

L’affermazione ripetuta da Heidi Reichinnek, per cui i partiti di governo e il nuovo zentrum liberista vogliono «dare al dieci per cento più ricco della popolazione 50 miliardi in più», sottraendoli ad un bilancio federale che avrebbe bisogno di una nuova rete di politiche sociali attive ed energiche, è il messaggio più chiaro di questa campagna elettorale di una sinistra che si tiene lontana tanto dalle tentazioni governiste locali e nazionali (leggasi: coalizione magenta nel Brandeburgo tra SPD e BSW) quanto da quelle di timidissimo e casuale incontro con posizioni e voti dell’AfD.

Il rossobrunismo di Sahra Wagenknecht non aiuta il progressimo tedesco, la parte che più vi si riconosce dell’intera Germania moderna, a comprendere la verticalità della crisi, il carattere nettamente di classe della fase di instabilità globale, europea e nazionale. Fare del migrante un punto di vertenza sui diritti universali, di aspra dialettica in merito, significa voler viziare il dibattito culturale e politico con un opportunismo che guarda al convogliamento di voti di destra verso sé stessi.

Una posizione di questo genere è responsabile quasi più di quelle oggettivamente liberiste dell’aumento delle pulsioni xenofobe in un paese che ha bisogno di giustizia sociale e democrazia al tempo stesso. L’euroscetticismo della BSW non è sinceramente inteso a contrastare le politiche di austerità se, di contro, propone come alternativa una conversione quasi simile a quella dell’AfD in un continente fatto di nazionalismi che puntano ad un protezionismo asfittico anche se in chiave sociale. Non possono privilegiarsi i diritti sociali a discapito di quelli civili ed umani. Non si può difendere il mondo del lavoro, della precarietà, dalla povertà estrema mettendo i tedeschi contro i migranti.

Die Tageszeitung” ha definito quello di Sahra Wagenknecht un “socialismo con codici di destra“. Con tutte le sue contraddizioni, Die Linke rimane l’unica formazione politica concretamente ancorata ad una idea di cambiamento sociale radicale ma pragmatico e, soprattutto, con una chiara visione dei rapporti di forza esistenti senza scadere nel populismo retrivo e nella faciloneria di argomentazioni acchiappatutto. L’auspicio è che abbia la forza per condizionare le scelte della prossima legislatura federale tedesca e, quindi, essere sia un argine alla destra estrema dell’AfD così come alle politiche antisociali che Friedrich Merz ha già in mente…

MARCO SFERINI

22 febbraio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria


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