Come sembra ormai chiaro la campagna elettorale , di fatto in corso, sintetizza in se quel groviglio di questioni e di aspetti che da tempo i commentatori più avveduti avevano indicato. L’Italia, lontana dal vivere una condizione di serenità e di stabilità, vive sentimenti controversi e contrastanti. Le principali e più gravi questioni sociali restano aperte, angosciano le famiglie, soprattutto quelle deboli e delle classi medie, preoccupano i più giovani, incattiviscono l’umore profondo del Paese. In questo quadro il confronto che si svolge sulle diverse ricette programmatiche, che le coalizioni politiche in lizza avanzano, è privo di quella necessaria limpidezza che è alla base di una democrazia in salute. Le acque del conflitto politico italiano sono pericolosamente increspate e i diversi protagonisti più che autorevoli agenti di autonome ipotesi politiche appaiono frammenti privi di prestigio con scarsi legami con effettive forze motrici della realtà del Paese. La ricerca retorica di candidati pescati, come si dice, dalla società civile non inganni. Più cresce la rincorsa a candidature simboliche più emerge l’assenza ,nelle offerte politiche in campo, di legami organici con tessuti concreti che costituiscono il corpo sociale complesso. Più vive una politica così disorganica e spuria più essa, per paradosso, appare priva di un disegno sovrano. Ovviamente non tutte le forze vivono dentro queste bolle surreali che puntano in prevalenza all’immaginario immediato delle popolazioni.
A fronte di questo brulicare di offerte politiche – persona, che calano simboli e movimenti partendo da ricerche di mercato del voto, vivono effettivi interessi sociali corposi, poteri reali esistenti, gruppi economici e sociali che, pur con la separatezza che segna la politica odierna, delle loro proiezioni nella rappresentanza ce l’hanno. Per questo il centrosinistra, segnatamente il Pd, alla fin fine un ruolo a un certo punto lo svolge. Ciò che il dibattito superficiale (e un po’ interessato) definisce apparato è in realtà quel lascito che dal passato Pci (e in misura minore da una parte della Dc) ha trasferito al Pd il rapporto con parti essenziali del Paese (lavoro dipendente, pubblico e privato, strati di ceto medio, pensionati, intellettualità di massa, imprenditoria più attiva e innovativa e cooperativa, cui si aggiungono oggi nuove figure nel frattempo emerse dalla ristrutturazione economica a partire dalle molteplici forme di precariato e di particolari forme di lavoro autonomo). E’ su questa composizione sociale, per quanto oggi frammentata e scarsamente coesa, che regge il cosiddetto apparato Pd. Proprio come, sul fronte opposto, il blocco di forze ,unificate dal federatore Berlusconi in questi anni, ha trovato e trova la sua linfa essenziale in quell’insieme di gruppi sociali che hanno segnato lo sviluppo della piccola impresa leghista, la dorsale del Nord Est,nei i ceti parassitari di alcune aree del centro, nelle diverse categorie autonome fondate sulla leva dell’evasione fiscale diffusa, in una parte dell’Italia disoccupata e miseramente assistita di alcune grandi aree del Mezzogiorno.
A questi due grandi blocchi che si sono fronteggiati aspramente negli anni si aggiunge oggi un terzo gruppo rappresentato da Monti. Si annidano lì quella parte di forze costrette per quasi un ventennio a trovare riparo all’ombra dei due poli maggiori. Non si tratta di Casini o in passato Mastella. E’ quella parte d’Italia che un tempo trovava una sua collocazione nel grande ventre della Balena bianca, capace di saldare in se istanze popolari e di base, realtà del mondo ecclesiale più diffuso e grandi gerarchie clericali, l’intricato mondo delle banche e del credito, ciò che oggi è rimasto come eccellenza e che un tempo era un tessuto più vasto di grandi imprese sia private che pubbliche o a partecipazione statale. Questo terzo gruppo esprime una rappresentanza sociale reale, anche con solidi legami con la tecnocrazia dell’Unione Europea, ma difficilmente arriverà a percentuali di massa.
La sfida con il berlusconismo è apertissima ma, al momento, al di là perfino delle sorti personali del cavaliere (peraltro abbastanza in ripresa) sembra che l’offerta politica che negli ultimi vent’anni ha assicurato una dimensione di massa alle idee della destra, pur venata dal populismo anzi proprio perché venata dal populismo, non sia ancora indebolita al punto da cedere di schianto l’intera sua rappresentanza a Monti. Dalla sfida dei tre gruppi di forze sommariamente descritti emergerà l’assetto che il Paese potrà guadagnare all’indomani del voto. Sembrano più stemperati, infatti, gli impulsi antipolitici che avevano gonfiato il movimento di Grillo, anche se resta forte il vento di critica radicale ai partiti e alla politica, che si trasferisce pericolosamente anche alla democrazia, che permea però ormai un po’ trasversalmente ogni forza che è in campo.
La frammentazione sociale che oggi rende difficile una coesione egemonica significativa di una di queste tre offerte politiche è il vero grande nodo che segna la difficoltà di passo dell’Italia di oggi. E’ da questa assenza di coesione sociale che deriva il tema un po’ troppo arido e nudo, politicista, di alleanze avvertite dai più come innaturali. Maturano esigenze di effettive convergenze forzate, e non solo per le caratteristiche della legge elettorale attuale, proprio perché non è cresciuta e non cresce nel Paese profondo – anche come azione di grandi forze politiche presenti nella società che ne organizzino spinte ed impulsi – quel processo unitario dal basso in cui le alleanze diventino naturali e automatiche, movimento omogeneo che salda nel suo seno, pur con istanze diverse, una idea di Paese. Il rischio cui si avvia oggi l’Italia appare dunque un rischio mortale. Questa difficoltà ad unificare il Paese (almeno una sua parte larga) che a sua volta costringe o al conflitto o a rapporti politicisti le coalizioni politiche , può portare alla crisi della Repubblica nata dall’unità antifascista e dalla liberazione. Anche il radicalismo politico di sinistra è oggi interrogato severamente da questo deficit di egemonia nel quale cresce la crisi della democrazia. Personalmente non ne contesto la radicalità, spesso necessaria.
Ne constato la incapacità a proiettare questa radicalità dentro una dimensione di massa, l’unica capace di conferire alla radicalità un valore. E ne critico aspramente il trasformismo che ,nella incapacità di darsi un disegno capace di rappresentanza sociale effettiva , cerca volta a volta di far vivere una radicalità sospesa in se stessa ma priva di un serio collegamento sociale. Questo congelamento della radicalità in un vuoto sospeso fa purtroppo due danni. Da un lato getta discredito su cose che invece andrebbero valorizzate, dall’altro priva la sinistra, e la coalizione sociale che più o meno alla sinistra è riconducibile, di quel tasso di idealità radicale per un grande movimento essenziale.
Troppo facile accusare chi la coalizione a sinistra dirige senza aver provato sul serio a segnarne di contenuti più avanzati il profilo. Il guaio è che, contrariamente a quanto sembrano a volte pensare gli esponenti del radicalismo di sinistra, non ci sono altre “società italiane” di cui aspirare a prendere la rappresentanza. Da qui la contiguità inevitabile con proposte di minoranza , magari anche nobili ma di sola opinione ,e la rinuncia colpevole al ruolo che a queste culture spetta e spettava.
Se, come sembra, questa impossibilità di creare dal basso un movimento di governo unitario, accentuata dalla legge elettorale in vigore che impedisce al Senato che vinca qualcuno, dovesse riprodurre, dopo il voto, il Paese uguale a se stesso, il pericolo di una deflagrazione istituzionale e sociale diventerebbe reale. Nessuno pensi però che un eventuale nuovo voto, a quel punto inevitabile, un po’ come avvenuto nei mesi scorsi in Grecia, lascerebbe le cose di ognuno alla situazione attuale. Questa possibilità scuoterebbe drammaticamente l’assetto della Repubblica fin nelle fondamenta. E costringerebbe ogni soggettività politica matura a un cambiamento profondo immediato.
VITO NOCERA
redazionale