La stanchezza comincia a farsi sentire, perché vale sempre l’adagio nomadesco secondo cui: «…per una vita migliaia di ore, per il dolore è abbastanza un minuto…». Non siamo fatti per patire, eppure anche il barcarolo romano lo cantava: «…tutti al mondo dobbiamo soffrir…». L’autunno dei numeri grigi, dai sordi echeggi che si rifrangono attraverso le opinioni televisive in ogni casa e che accompagnano in ogni dove su telefonini e tablet, è una stagione da preludio: sembra quasi che ci dica che non dobbiamo, in fondo, farci troppe illusioni, perché il peggio deve ancora venire.
Qualora qualcuno avesse anche la sfera di cristallo, urca urca tiruleru…, non avrebbe però la bacchetta magica per porre rimedio alla situazione pandemica, all’emergenza sanitaria. L’Italia è attraversata da una depressione sociale che si è andata stratificando e inspessendo, sommandosi ad una depressione morale, proprio psico-fisica, che sta divorando gran parte della volontà di resistenza che avevamo messo nei mesi di marzo ed aprile per affrontare la novità del coronavirus Covid-19.
Adesso sappiamo cosa ci può aspettare e quindi l’ansia anticipatoria ci ha già trapassato, vive in noi che siamo nello stadio complementare e successivo: quello della disperazione, della visione dell’invisibilità del futuro, dell’accrescersi di una povertà dilagante facile da manipolare per chi intende farsi un po’ di pubblicità gratuita sui social, nelle televisioni e sui giornali.
Fascisti, gruppi di destra estrema e micro-criminalità comune si saldano fra loro: probabilmente quei giovani delle cinture periferiche di Roma e Torino sono attratti dal centro gravitazionale di un estremismo che si guarda bene dal mostrarsi col volto autoritario che ha. Inneggia all’orgoglio nazionale, srotola striscioni tricolori con frasi roboanti (“L’Italia riparte dai giovani“) e addobba l’autunno gelido del virus con tanti pezzetti di nuova “strategia della tensione” atta a generare sempre più malcontento sul disagio reale e concreto degli sfruttati, dei più deboli e precari della società.
Molti sono alla pari di un funanbolo sospeso su a molti metri da terra: una corda tesa separa l’esistenza dall’incertezza della caduta che può essere davvero rovinosa se questa volta i provvdimenti previsti nel decreto “Ristori” non saranno applicati minuziosamente e con le giuste tempistiche che il governo si è dato. Lo stato di incertezza generale restringe la corda, aumenta l’altezza a cui stiamo e idebolisce progressivamente l’equilibrio precario del funanbolo.
Questa angoscia rende tutto molto relativo: nessun passo è più sicuro. Tanto per i lavoratori quanto per i precari e i disoccupati; tanto per chi ha una piccola attività e ha reinvestito, appena dopo l’inizio della “fase 2” a maggio, quanto per chi ha continuato a lavorare senza grandi ristrutturazioni di organici e ora ha finito la riserva di fondi con cui pensava di andare avanti in un autunno meno aggressivo sul piano pandemico.
I lavoratori della Whirpool di Napoli, proprio in queste ore, stanno bloccando l’autostrada per scongirare licenziamenti e chiusura degli impianti: dopo diciotto mesi di lotta sono appesi letteralmente ad un filo. Cinquanta milioni di euro sono stati concessi all’azienda che intende comunque delocalizzare e lasciare a casa centinaia di operaie e operai. La lotta dei lavoratori rischia di passare in secondo piano nel mezzo di una emergenza sanitaria che fagocita tutte le altre problematiche sociali.
Le singole vertenze rientrano in un corto circuito che non può prescindere dalla situazione di inasprimento di un pauperismo che se si accresce ancora rischia di diventare una vera emergenza sociale ingestibile. Non basteranno gli appelli alla dissociazione dalle frange violente che approfittano delle disgrazie altrui per destabilizzare la democrazia e il rapporto tra istituzioni e cittadini.
La depressione sociale è rabbia cumulata per le tante irrisolte questioni che concernono la vita di milioni di lavoratori, di giovani precarissimi che vengono assunti da ristoranti stellati a Milano che offrono menu a 120 euro a persona e pagano i loro camerieri con un salario di 1000 euro al mese comprensivo del “fuoribusta“.
La depressione sociale diviene anche psicologica quando lo sfruttamento consueto da parte dell’imprenditore si somma alla devastazione antisociale che il Covid-19 discriminatamente porta avanti: perché non è per niente vero che il virus è “democratico” e colpisce egualmente tutte e tutti. Il precario che viene contagiato non ha le stesse possibilità di reggere economicamente l’urto rispetto a quelle del suo padrone: il primo non ha un tesoretto in banca per potersi sostenere per mesi; il secondo qualche possibilità in questo senso può averla, visto che detiene una impresa.
L’obiezione pronta è questa: «Ma se ha una impresa, ha anche dei costi maggori, un rischio che i dipendenti non hanno». La musica non cambia anche se cambiano i tempi e gli ambiti di sopravvivenza per alcuni e di vita per altri. Il rischio di impresa esisterebbe se gli imprenditori non avessero sovente fatto ricorso ad aiuti di Stato per evitare di sanare scelte sciagurate fatte privatamente; scelte rischiose per aumentare i profitti, non certo migliorare le condizioni di lavoro dei loro dipendenti.
Il dramma della depressione sociale e morale sfocia così in una approssimazione continua dei problemi che ci avvolgono e ci vivono ogni giorno: la responsabilità del governo in merito alla chiarezza della comunicazione è imperdonabile. Mentre si enunciano le misure restrittive di un DPCM riferendosi a comportamenti sociali, individuali e a quelli delle categorie produttive del Paese, si deve accompagnare la spiegazione circostanziata di ogni provvedimento: se si decide di chiudere teatri e cinema, non solo i cittadini tutti ma principalmente i lavoratori e tutti coloro che gravitano attorno a quel settore devono conoscere la cosiddetta “ratio” della norma. Così vale per ristoratori, baristi, pasticceri. Per chiunque.
Elencare le giuste (e probabilmente assai insufficienti) misure di contenimento del virus senza mettere delle note a margine che chiariscano proprio il senso completo delle norme, frutto di una interazione tra pareri scientifici, politici unitamente a problematiche tecniche, amministrative e di gestione della pandemia nei singoli territori, è commettere un errore grossolano. Si può anche imporre un determinato comportamento in tempi straordinari, ma lo si deve fare – se si ha davvero rispetto per la vita altrui in tutto e per tutti, anche quindi sul piano morale e psicologico – senza ermetismi e icasticità protocollari.
Non bastano le domande di alcuni giornalisti a rendere meglio il senso dei provvedimenti: per quanto buone possano essere le sollecitazioni della carta stampata o della televisione, è dal Presidente del Consiglio che deve arrivare la chiarificazione dei motivi per cui si è deciso in un senso piuttosto che in un altro. Questo non è stato fatto. Mai. Se non in seconda o terza battuta, dopo che – per l’appunto – sollecitazioni venivano fatte dalle colonne dei giornali o da dibattiti infuocati in tv.
La frustrazione sociale e psicologica di larga parte della popolazione magari fosse spiegabile solamente con la mancanza di una sinossi della complicata lettura di un decreto di ventuno pagine fitto di riferimenti normativi molto difficili da ritrovare e studiare. Il DPCM è il fenomeno normativo eccezionale di un periodo gravido di tensioni che non potranno essere fermate se non mediante un sostegno sempre maggiore alla stragrande maggioranza della popolazione: quella che veramente lavora, produce, consuma e poi crepa senza aver potuto lasciare alle generazioni a venire un mondo migliore, una Italia dove la democrazia poggi su diritti sociali e civili solidi, sempre più estesi e garantiti.
Il rischio dell’impoverimento si estende su più piani di eguale o simile importanza: dall’immagine delle tasche vuote e dei conti correnti prosciugati fino alla povertà culturale, all’impatto che ha sui giovani il proibizionismo, la compressione degli spazi di comunione degli interessi, dalla scuola allo sport, dal cinema al teatro, dai concerti alle grandi manifestazioni per la pace, l’ambiente, l’amore senza pregiudizi e distinzioni.
Va da sé che dobbiamo resistere. Magari provando ad autogestirci sempre di più, nel pieno rispetto delle regole: regalandoci lotte ordinate e non violente; costruendo momenti di socializzazione nella distanza, utilizzando meglio Internet e la velocità della sua comunicazione; studiando autonomamente, approfondendo ciò che ci piace, coltivando il desiderio laddove si presenta e facendone una leva per rialzarci ogni volta che ci sentiamo infiacchiti dalla pesantezza delle ingiustizie e del virus.
Qualunque momento della giornata possa diventare un secondo, un minuto di alternativa è già di per sé crescita morale, culturale e sociale. Possiamo sconfiggere la depressione psicologica e allo stesso tempo lottare contro quella economica che, virus o no, rimarrà una conseguenza della contraddizione fondamentale: il sistema delle merci, dei profitti e dello sfruttamento.
Trovato il vaccino per il Covid-19, anche la lotta fra le classi andrà ripensata e rimodulata per ennesimi, nuovi “tempi moderni“.
MARCO SFERINI
28 ottobre 2020
Foto di PublicDomainPictures da Pixabay