«Devo lasciare il Messico per qualche tempo, e ho pensato di fare un esame di coscienza per stabilire che cosa mi irrita di più di questa nazione, il cui nome è sulla bocca di tanti demagoghi e che tuttavia è la mia patria, prima, unica e ultima. La verità è che più sono arrabbiato col mio paese e più lontano vado, più mi sento messicano».
Basterebbe sostituire «Messico» con «Argentina», e le parole scritte da Jorge Ibargüengoitia nel 1974, prima di fissare la sua residenza a Parigi, si adatterebbero perfettamente a Martín Caparrós, giornalista, narratore e grande cronista, intellettuale cosmopolita e viaggiatore, che, nato a Buenos Aires nel 1957, vive a Madrid da molti anni.
Il suo sguardo acuto e polemico ha sempre spaziato su fatti e fenomeni internazionali, avvolgendo in una rete di collegamenti e analisi el mundo mundial (così si intitolava la sua rubrica sul New York Times) e in particolare l’America latina.
Nel bagaglio di Caparrós, però, c’è sempre stato ampio spazio per quella «prima, unica e ultima» patria, come testimoniano buona parte dei suoi testi, cui Penguin Random House dedica oggi una collana che riunisce romanzi spesso notevoli ed eccezionali esempi di giornalismo narrativo, da La fame e Ñamerica (pubblicati in Italia da Einaudi), a La voluntad, monumentale storia degli anni ’70 in Argentina, scritta insieme a Eduardo Anguita.
Ultimo esempio dell’ostinata «argentinità» dell’autore (ma anche di un’evidente vocazione sperimentale e del piacere di attraversare e confondere i generi) è il suo nuovo romanzo, Vidas de J.M., apparso un paio di settimane fa: un libro immateriale e interattivo, che non verrà mai stampato e che si può leggere soltanto sul sito di Anfibia, un’eccellente rivista collegata all’Universidad Nacional de San Martín, una delle istituzioni educative pubbliche e gratuite che a Javier Milei piacerebbe radere al suolo. L’accesso costa 2.500 pesos argentini (cioè due euro e cinquanta) per i lettori «nazionali» e 4000 per quelli di altri paesi, e l’intero ricavato contribuirà a ricostruire la redazione di Anfibia, distrutta in marzo da un misterioso incendio.
Nei capitoli del romanzo («un mazzolino di testi», lo definisce l’autore) sono disseminate parole sulle quali cliccare per costruire destini diversi a seconda delle proprie scelte, anche se «scegliere», avverte Caparrós, è un termine ingannevole perché il lettore non sa dove i link lo porteranno, proprio come accade quando la sorte interviene a mutare il corso di una vita.
In questo caso, della vita di Julio Méndez, un «biondino» selvaggiamente picchiato dal padre e disprezzato dalla madre, bullizzato dai compagni, calciatore fallito, evitato dalle ragazze, amato di un amore ai confini dell’incesto dalla sorella Karola, e gonfio di rancore.
Se le iniziali del protagonista e le sue vicende ricordano qualcosa o qualcuno, ebbene, i riferimenti non sono affatto casuali: Caparrós rivela di essersi ispirato all’infanzia e all’adolescenza di Javier Milei, narrate in dettaglio nella biografia di Juan Luis González (El Loco, Planeta 2023), nonché ai suoi inesauribili furori, alla «crudeltà» che gli viene imputata, alla violenza e al parossistico desiderio di rivalsa che ha introdotto nel discorso pubblico.
Vidas de J.M., però, non è un romanzo-verità, ma un gioco di riflessi, uno specchio deformante in cui Méndez diventa un doppio fantasmatico di Milei, simile ma non uguale, che va incontro a ben dodici finali orientati in tre direzioni: il fallimento fra droga e precarietà, il successo come calciatore nella modestissima liga guatemalteca e il trionfo politico in un paese alla deriva che sprofonda in un’atmosfera sempre più grottesca e feroce, tra il timore crescente del futuro, la negazione del passato e una stupefatta incredulità nei confronti del presente.
Caparrós ricorre al monologo interiore alternato alla terza persona, servendosi con consumata abilità delle svolte provocate dai click non tanto per intervenire sulla trama, ma per dare corpo e sostanza a personaggi, circostanze e ambienti. Al di là della componente ludica e satirica, che è indubbia, il romanzo si interroga così sul ruolo del caso, sulla complessa questione dell’identità, sui motivi per cui si diventa una persona invece che un’altra, e soprattutto sul destino dell’Argentina.
La sua principale seduzione risiede però in uno humor corrosivo che lo trasforma in un pamphlet virtuale e ci ricorda come il ruolo dell’umorismo non sia semplicemente quello di far ridere, ma di sottoporci la possibilità di pensare il mondo in un altro modo.
FRANCESCA LAZZARATO
Foto di Manuel Cortina